Il libro più bello sulla resistenza che io abbia mai letto è Una questione privata di Beppe Fenoglio. L'ho amato e lo amo ancora. L'ho letto quando mi capitò di essere ricoverato in ospedale con una brutta infezione che non voleva andare via e niente da fare tutto la giornata, a parte tremare per la febbre. Saranno stati i quintali di antibiotici o il fatto che finalmente dovevo stare fermo in un posto a leggere, senza dover scappare via tutto il tempo, ma alla fine del racconto mi sembrava che dalle pagine uscisse la luce, che quando le pallottole fasciste correvano dietro Milton e lui cercava di correre più forte di loro, e lui cercava di salvarsi e correva e correva, e mentre leggevo e correvo con Milton grazie alla scrittura incredibile di Fenoglio, allora il testo si aprisse come un fiore mentre Milton cadeva a un passo dal bosco che gli si chiudeva davanti :
«Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze. Arrivavano anche in diagonale, alcuni si erano precipitati a sinistra per coglierlo d’infilata, e gli sparavano anche d’anticipo, come a un uccello. Queste diagonali lo atterrivano infinitamente di piú, le dirette avevano tutte le probabilità di farlo secco. «Nella testa, nella testaaaa!» Non aveva piú la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi.
Correva, sempre piú veloce, piú sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.
Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!»
Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d’improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l’aggirò sempre correndo a piú non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno. Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l’imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava.
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.»
Oggi pomeriggio vado a rileggerlo. #25aprile
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