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Immagine del redattoreAlessandro

Incipit dopo una crisi

Stamattina ti sei messo a scrivere tutti i possibili incipit che potrebbero descrivere questo periodo. Pensavi a quanti in questi giorni e in quelli che seguiranno la fine della crisi scriveranno testi, romanzi, poesie, comporranno canzoni, opere e altro. Sentiranno questa cosa del voler dire. Ancora di più di quello che è normalmente in questo mondo di reti sociali, ancora di più perché rispetto a un evento che tocca direttamente le loro vite, la loro quotidianità. Volevi così provare a fare una mappa di tutte le possibilità narrative passate e future che si presenteranno dopo questa esperienza. Di tutte le opportunità di scrittura che le persone penseranno di utilizzare, di sperimentare, di scoprire anche se sono state già scoperte, già inventate, già usate. Vedevi i palinsesti e le strutture, la ricorsività che si riproponevano. Bastava prendere la storia di qualcuno chiuso in casa in quarantena e con cui nessuno voleva entrare in contatto e che non poteva uscire di casa e allora pensavi a 'La metamorfosi' di Kafka e mettere tutti quanti al posto dello scarafaggio, con la variazione che la storia si svolga in questi giorni. Prendevi Matheson e ne fai restare uno solo che sopravvive a questa storia. Prendevi un genere e lo adattavi a questi giorni. Poi c'erano due amanti che non si possono vedere. Di quelli che grazie al confinamento si tengono in contatto a distanza e poi quando si vedono finisce tutto, o forse no, è il grande amore, oppure scoprono di essere cugini. Pensavi a una cronaca dal futuro. Pensavi a una storia che comincia con la protagonista che è stata concepita in questo periodo. Pensavi al claustrofobico che gestisce la sua vita di claustrofobia in questo mondo di oggi e si scopre capace di superare le sue paure. Pensavi a cominciare con un dialogo in ospedale e raccontare i fatti dal fronte medico. Pensavi al genere hard boiled ed ecco un ispettore che deve scoprire chi ha ucciso chi in un mondo devastato dalla pandemia e i controlli del suo permesso fatti dalla polizia in strada. Vedevi la pioggia cadere da dietro le finestre e qualcuno che tracciava dei cerchi sul vetro. Prendevi poi la storia di quelli che si erano allontanati dalla civiltà per andare a creare una comunità immunizzata tra le montagne.


Prendevi il mondo che ritorna tutto verde e abitato da animali nuovi e diversi. Prendevi un ordine nuovo del mondo. Immaginavi un complotto che attraversava il pianeta, le spie e solo una ragazza a risolvere l'enigma e il problema. Cambiavi i pronomi del racconto e i punti di vista, cerano loro e c'eravamo noi. E ancora e ancora, tante e tante possibilità, tutte identiche, tutte già dette, già raccontate, tutte modificabili, intercambiabili, tutte con un legame con la realtà, pensavi a quelle che cominciavano con un mondo di fiaba, pensavi alle storie per bambini e il mostro virus cattivo, pensavi alle variazioni sull'educazione, sulle regole e sulle leggi, pensavi a nuove forme di fare l'amore e di morire, rimettevi indietro il tempo e poi di nuovo in avanti e poi spostavi il tuo mondo in un altro continente e poi in un altro pianeta e allora andavi nello spazio con il mondo visto dal cielo e ripiombavi giù rapidissimo nel piccolo di un uomo solo, pieno di sensi di colpa e responsabilità e del suo cammino spirituale, pensavi alla liberazione e tutti che corrono in strada felici, pensavi al possibile e all'impossibile e all'accordo dei condizionali con i congiuntivi e spiegavi ai tuoi studenti a distanza le incredibili potenzialità dei congiuntivi e dello spreco che se ne fa, così come gli imperativi nelle funzioni narrative - fallo adesso, costruivi una storia dove qualcuno era sempre in ritardo su tutto e anche sul virus e così si ritrovava chiuso fuori di casa per sempre e ne facevi un paragone con i senzatetto che vivono in strada, ne facevi un opera in cui i senza tetto non sono poveri, ma sono solo in ritardo per poi scoprire alla fine che in effetti non sono in ritardo ma hanno un modo di osservare la vita diverso e una capacità di contemplazione che ormai gli altri non riescono ad avere, costruivi metafore e allusioni e parodie, tutto si teneva bene insieme e cominciava a staccarsi pezzo dopo pezzo da altre storie e racconti e farne uno proprio, vedevi la ripetizione sempre la stessa in un mondo che pare diverso, che alberga persone che pensano di essere uniche e irripetibili, che pensavano di avere qualcosa di urgente da dire, qualcosa di necessario, qualcosa che gli avrebbe dato gli onori e l'approvazione, immaginavi la possibilità di un punto di vista specifico, prendevi quello di un mestiere, di uno che deve continuare a lavorare anche se tutti stanno a casa, pensavi alla cassiera del supermercato che a ogni paziente, a ogni cliente - lei si sbaglia sempre di categoria ormai - pensa se sarà quello che le passerà il virus e comincia a catalogare nella sua mente il tipo di clienti rispetto al tipo di prodotti comprati e cerca la funzione per cui quelli che comprano più ceci di certo saranno più malati di quelli che comprano le uova e poi si domanda dove siano finiti i clienti abituali e se non li vede arrivare allora comincia a pensare che siano ammalati e magari deceduti e se lei li ha toccati oppure no e se hanno comprato i ceci ultimamente, pensavi ai ricercatori, allo scienziato e alla formula segreta e di nuovo al complotto e poi al viaggio, di nuovo al viaggio in un mondo in declino, pensavi al fatto che nessuno si stira più le camicie e di come da qui si può costruire un'altra storia e di come questa cosa cambi le abitudini di una famiglia e ne cambi anche le dinamiche perché il fatto di dover stirare era l'unica possibilità per le nevrosi comuni, per trovare un momento di calma, pensavi ad altri gruppi e modelli familiari, le coppie etero e le coppie gay, pensavi ai migranti, alle storie dei migranti e della loro lotta contro il virus e l'abbandono da parte del mondo e la loro lotta per la sopravvivenza, pensavi a un leone in Africa seduto all'ombra a osservare il tempo passare. E vedevi la difficoltà per un autore qualsiasi di trovare un modo diverso di raccontare tutto ciò, di distaccarsi dal gregge - anche utilizzando il lessico epidemiologico. Vedevi in quanti avrebbero voluto dire la loro, raccontare, sbattendo sempre contro stereotipi, banalità, ripetizioni, immagini di monumenti già fotografati mille e mille e mille volte, la loro vita. Pensavi a come tutti dovrebbero mettersi a leggere la storia per essere pronti a sapere quello che succederà, per sapere cosa è stato già detto, cosa è stato già raccontato e in che mondo e in che modo e perché si continu a raccontare anche se la gente non cambia e pensavi a Numa Pompilio, e a Lucrezia, e poi ai graffiti nelle caverne e a un fuoco e tutti a raccontare questo mondo e tutti a provare a dire qualcosa che facesse senso per loro, che gli sembrasse potesse dire qualcosa, che fosse unico, adesso, la necessità per gli imperatori coreani di avere una serie di scrivani che redigessero in modo del tutto imparziale la storia del mondo e che gli imperatori stessi non potessero avere accesso a queste storie. Consideravi che lo stile, lo stile potrebbe creare lo scarto, perché alcuni siano ricordati e altri cadano nell'oblio usando una frase come questa 'cadere nell'oblio'. Pensavi al multilinguismo a come si mischiano le lingue e le possibilità e le sfumature a come provavi a spiegare a una studentessa la differenza tra 'Già' in italiano e 'Ouais' in francese, cercavi di farle capire la rassegnazione in uno e la non chalance nell'altro e di come mischiando tutte queste lingue si potesse forse racontare qualcosa di diverso e pensavi alla tensione che senti quando qualcuno che parla più lingue, passi da una lingua all'altra quando c'è qualcosa di difficile da dire e come proprio questo passaggio sia il segno della difficoltà e della tensione. Pensavi a lui che parla già tre lingue e una quarta l'impara a scuola e che quando legge non sa che suono deve fare, in che lingua leggere e ancora mischia tutto, anche se infine quello che gli interessa per ora sono gli amici, gli abbracci e il calcio, ma chissà se almeno lui riuscirà a raccontare qualcosa di diverso grazie a tutte queste lingue. Il testo e le possibilità si allungano e si dilatano e poi ritornano alla loro forma originale: «Penso alla superficie del lago. Cerco di immaginarmela immobile. Il vento lo increspa un poco. Cerco di separare le piccole increspature. Poi di ogni increspatura cerco di vedere le gocce che solleva. Provo a contarle. Ogni goccia che individuo provo a guardarci attraverso. Mi avvicino ancora di più ed ecco che mi ritrovo di nuovo sul lago immobile che adesso è ancora più immobile, di nuovo un leggero vento e di nuovo delle increspature, ma più piccole, meno forti e di nuovo a separarle e così via.»

Ti sei ricordato allora di queste due pagine di Natalia Ginzburg in 'Lessico famigliare' :

«Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano di essere dei poeti, e tutti pensavano d'essere dei politici; tutti s'immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là d'un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s'erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c'erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l'idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme. Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là del vetro, e l'illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera. Così molti si ritrassero presto sconfortati e scorati; e ripiombarono in un amaro digiuno e in un profondo silenzio. Così il dopoguerra fu triste, pieno di sconforto dopo le allegre vendemmie dei primi tempi. Molti si appartarono e si isolarono di nuovo o nel mondo dei loro sogni, o in un lavoro qualsiasi che fruttasse da vivere, un lavoro assunto a caso e in fretta, e che sembrava piccolo e grigio dopo tanto clamore; e comunque tutti scordarono quella breve, illusoria compartecipazione alla vita del prossimo. Certo, per molti anni, nessuno fece più il proprio mestiere, ma tutti credettero di poterne e doverne fare mille altri insieme; e passò del tempo prima che ciascuno riprendesse sulle sue spalle il proprio mestiere e ne accettasse il peso e la quotidiana fatica, e la quotidiana solitudine, che è l'unico mezzo che noi abbiamo di partecipare alla vita del prossimo, perduto e stretto in una solitudine uguale.

Quanto ai versi della Cìa che aveva male al piede, essi non ci sembrarono allora belli, anzi ci sembrarono, come sono, bruttissimi, ma oggi ci appaiono tuttavia commoventi, parlando alle nostre orecchie il linguaggio di quell'epoca. C'erano allora due modi di scrivere, e uno era una semplice enumerazione di fatti, sulle tracce d'una realtà grigia, piovosa, avara, nello schermo d'un paesaggio disadorno e mortificato; l'altro era un mescolarsi ai fatti con violenza e con delirio di lagrime, di sospiri convulsi, di singhiozzi. Nell'un caso e nell'altro, non si sceglievano più le parole; perché nell'un caso le parole si confondevano nel grigiore, e nell'altro si perdevano nei gemiti e nei singhiozzi. Ma l'errore comune era sempre credere che tutto si potesse trasformare in poesia e parole. Ne conseguì un disgusto di poesia e parole, così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole, per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea. Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione. Era dunque necessario, se uno scriveva, tornare ad assumere il proprio mestiere che aveva, nella generale ubriachezza, dimenticato. E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all'ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell'altro, ingannati e traditi: sia quelli che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano, o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla. Così ciascuno riprese, solo e malcontento, la sua strada.»

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