Regola fondamentale per sopravvivere nella società civile: se qualcuno dice a te, proprio te, convinciti che questo te non sia veramente tu e continua come se niente fosse, continua a fare finta di niente. Se poi quello insiste, e dice proprio a te, non qualcun altro, ma veramente te, guardati in torno con aria interrogativa, e se non vedi nessuno per cui dire: «lui?», cerca di trovare scuse perché tu non sia proprio tu. [«Ma infine perché facciamo quello che facciamo? C’è un problema di senso che mi abita da qualche mese.» «Vabbè, ne parliamo dopo, adesso andiamo, altrimenti perdiamo il treno, dai.» «Credo che abbiamo un problema di comunicazione.» « Oui, oui, oui, vas-y, fagli pagare il loyer se ti abita, maintenant, on bouge ! »] Prima di capire che l’invito a partecipare a questa scuola dottorale era indirizzato a te, ci hai messo diversi mesi. E anche allora, hai fatto un po’ il difficile [«Ancora un'altra conferenza in un posto gestito da religiosi, non credo di farcela.» «Ma che ti frega?» «Ancora religiosi non ce la faccio.» «Hai qualcosa contro i religiosi?» «Non ce la faccio.»], perché hai deciso da tanto che vuoi finire quello che hai iniziato negli ultimi dieci anni e che non hai mai terminato e che rischi di non terminare mai, prima di metterti a fare cose nuove. E poi, perché continuare ancora ad andare a un’altra conferenza? Perché ancora dover parlare in pubblico, facendo mostra di quello che sai e, ancora di più, di quello che non sai? [« Tu sais, chaque prise de parole nous expose à l’ignorance. » « Voilà, mon philosophe favori ! Ferme la lumière maintenant que demain MOI, je travaille. »] Che senso ha tutto ciò? Sono mesi ormai che ti fai questa domanda, che è come una sensazione sempre presente, come un gatto sulla spalla mentre scrivi e non decidi se davvero smetterla o continuare, perché tanto lo sai bene che di certo di smettere di scrivere non se ne parla nemmeno a pagarti - e se ti pagassero lo faresti di nascosto, perché smettere di scrivere vorrebbe dire anche smettere di pensare e fare tante altre cose, perché è così che rispondi a quelli che ti vedono camminare e ti chiedono se tu te balades, tu dici che no, che stai scrivendo, ché non si scrive solo stando seduti a scrivere. [«Non capisco perché proprio io.» «Ma è bello, cavolo. Sei fortunato.» «Sì, sono fortunato. Ma è che sono così stanco.» «Hai dormito male?» «No, dicevo in generale.» «Mangia più di légumes.» «Ma non c’entra il mangiare» «Allora ti fai un buon succo di gingembre ogni mattina che ti boosta tutta la giornata.» «A volte penso che non mi capisci.» «Oh che palle, va te faire voir.» «Ci amiamo ancora?» «Te che dici, imbecile?» «Comincio ad avere dei dubbi.» « Prends ta valise, qu’on est en retard et arrête toutes ces histoires ! »] Ma tra le tante che già hai e sono belle chiare a chiunque una volta guardasse nella tua direzione, tu hai un’altra debolezza, non sai come definirla, ma è una cosa che ti fa rendere impossibile di dover dire di no [e adesso che lo sapete per favore smettetela di chiedere tutto il tempo] e se ci metti poi che si starà tre giorni sul lago con le monache e vicino a una città che non conosci e in più che sarà tutto pagato [car la vie académique c’est la galère et gratos is the magic word], allora tu prendi la questione del senso di quello che fai, la chiudi in valigia e vai a prendere il treno. [«Ma come fai?» «Facile, in treno non fanno controlli e poi non devo passare la dogana.» «Che vuol dire?» «Che da un cantone all’altro puoi trasportare quello che vuoi. Basta che chiudi bene la valigia, ché non si apra nel vagone durante il viaggio, spargendo dappertutto mutande e dentifricio, e vai.» «No, che vuol dire, cioè come fai a continuare a fare quello che fai, ad andare a parlare in pubblico così, se hai ‘sta questione, se nemmeno tu sei convinto. Devi prima trovare una risposta, un senso, qualcosa, diamine! Non puoi continuare a fare finta di niente!» «Perché invece all’estero, sull’aereo non è detto che sia bene portare questioni difficili con te, anche nel bagaglio da stiva pare che sia vietato o ci vuole almeno un permesso speciale problematiche esistenziali e domande difficili. E poi è vero quello che ho letto in quei romanzi, che non è detto che non potrai evitare di parlarne con il tuo vicino di sedile. Ma se il regolamento è cambiato, tanto meglio così eh!» «Perché fai così?» «Il regolamento non è cambiato?» «BA-STA!»]
Vabbè, però, prima di andare meglio assicurarsi che, monache a parte, la gente sarà interessante e allora ti eserciti nello stalkeraggio e googli tutti i nomi della gente presente. Non conosci nessuno. Tanto meglio così. Quindi ti dici che nemmeno loro ti conoscono e farai di tutto per non farti riconoscere, che hai la tua occasione, che questa volta non tirerai fuori la storia di andare in conferenza è bello per fare vacanza, come hai fatto quella volta lì, tra i germanofoni, dove tutti erano così intelligenti e parlavano di grandi problemi e gli venivano le rughe sulla fronte e che hai pensato che di certo hanno un coach per le rughe intelligenti sulle fronti larghe da nuovo mondo, e poi è tutto pagato e non cercherai di organizzare convegni di comparatisti in Canada per vedere in un sol colpo gli uccelli più piccoli al mondo e i cetacei, i mammiferi più grandi al mondo, basta con questa storia dei colibrì e delle balene, non se ne può più, e falla finita una buona volta. No, questa volta serio come un ceppo che aspetta il colpo, ti raccomandi à la gare in attesa della collega con cui viaggerai, tutto d’un pezzo come un investigatore privato dei film hard boiled, sarai un vero ricercatore come si deve, caspita, il ricercatore per antonomasia che alla fine diranno, ecco questo sì che è un ricercatore, finalmente l’abbiamo trovato, eccolo lì, guardate tutti, lanciamo allori, facciamogli indossare corone di fiori, daje, sei grande, famo un corteo, gettamose ar lago - ecco, sarebbe meglio evitare questi pensieri per esempio. Respira. Calmati. Concentrati. Non fare il cazzone. Soprattutto questo ultimo punto tieni a mente. Ecco, sei pronto. […] Così pronto che dimenticherai immediatamente i tuoi propositi, quando dopo nemmeno un’ora dal tuo arrivo nella società istruita dell’accademia, la prima cosa che riesci a dire al primo pranzo con i colleghi è che tu trovi i film su Harry Potter noiosi e che, in fin dei conti, hai sempre sperato che Harry muoia malamente e finisca questa storia una volta per tutte.
Ma prima eccola la Svizzera che tutti amano, finalmente, proprio quella, la migliore che si possa mai desiderare [« Là-bas il y a beaucoup de touristes chinois et japonais. C’est La Suisse. »] e ti dici che chi se ne frega del resto e che con ‘sto lago qui e ‘sto battello qui, non può che andare bene ed ecco che entri in modalità turista pure tu [« Est-ce que tu prends une photo de moi sur le bateau, s’il te plaît ? C’est pour ma famille. » « Oui, oui ! » « Fais-moi moins chauve ! »] Ecco una cosa che fa senso sono i battelli sul lago, che se fosse per te le conferenze le terresti tutte proprio sui battelli: da Ginevra a Losanna, per esempio, c’è tutto il tempo per dirne di cose e godersi il panorama, fare domande intelligentissime e prendere un po’ di sole e aria fresca, discutere di problemi scientifici mentre il litorale lacustre scorre fuori dai finestrini e si vede l’acqua nell’oblò dietro al conferenziere di turno e andare tutti insieme a conoscere il capitano-mio-capitano. [«Tu sais, parfois j’ai besoin de prendre l’air. » « Va sur le balcon ! » « Tu ne me comprends pas. » « Va faire un tour ! »] In treno parlate e parlate, ché ne avete quasi per tre ore, e tu riesci a mostrarti moderatamente responsabile e adulto e pieno di esperienza di vita accademica, ce l’hai fatta finora, ma adesso siete arrivati e dovete scarpinare un po’ tirandovi dietro il bagaglio fino alla residenza, dove ci sarà la scuola estiva. Ed eccovi nel bel mezzo della campagna svizzera, mentre si scopre che i tacchi non erano la migliore soluzione, che le scuole estive si organizzano sempre in luoghi ameni e tu pensi solamente a chissà cosa si mangerà a pranzo e se ci sarà anche il dolce [«It seems son inhuman to me.» «Man, if you don’t like this job, why don’t you quit?» «Man, it’s not so simple.» «Do you have your cake today, man?» «Man, I don’t like cakes.» «Man, you have a problem, you know.»]
Arrivi in ritardo, ma era previsto. Da anni ormai arrivi in ritardo alle conferenze, perché non ti è mai piaciuto fare il gruppone che parte insieme dalla stazione e l’appuntamento alle 8 nella hall centrale, di stare coincés nello stesso vagone quando non ci sono vie di fuga dalle presentazioni e poi, il vero problema, confondi sempre il mondo del rock ‘n roll con l’accademia e pensi che arrivare in orario alle conferenze sia da loosers, mentre arrivare in ritardo sia da rockstar, è una questione di attitudine – e sì anche dell’adolescenza che non vuol finire, e per fortuna [«Io non ci pubblico lì, sono una rockstar.»]
Ma è tempo comunque di farle le presentazioni, stringere mani, [«Allora adesso vorrei che tutti quanti faceste un passo indietro.»], sorridere e dire grazie per l’invito non me l’aspettavo, pranzo, Harry deve morire ed esplorare la camera e sapere già che al 90 percento il letto sarà troppo piccolo e lasciare la tua valigia e stendere la camicia da conferenza che sono dieci anni che è con te e ancora funziona e pensare, che ecco ancora una volta sei in una camera, da solo, a guardare fuori dalla finestra e a tastare il letto che accoglierà le tue vecchie ossa malandate e non sai perché diventa subito discorsi da fare su una baleniera del secolo passato armato di fiocina, vecchia carcassa. Ma poi via in conferenza di nuovo ancora una volta e dopo le plenarie, che sono come gli esercizi di riscaldamento, non proprio correre, ma giusto fare finta di, ecco dopo lo stretching, si deve scegliere cosa ascoltare tra le varie sessioni parallele sperando di non morire nel mezzo delle relazioni, immaginarsi come sempre di essere quello che dopo sei ore di exposés, stramazza dalla sedia per terra e che tutti si ricorderanno di questa scuola dottorale dove c’è scappato il morto [«Che poi com’è che si chiamava?» «Non lo so, ma noi abbiamo continuato la conferenza nel pomeriggio: sai, era tutto già prenotato.» «Luca? Era Luca?» «No, non credo, Luca ce l’ha fatta. E poi, comunque, sai una cosa?» «Cosa?» «Odiava Mr Potter!» «Naaa, come si a odiare Mr Potter, dai! Era Paolo forse?» «No, nada.» «Ma pure Hermione?» «Pure, sì, anche lei, anche misogino era.» «Da non credere.» «Alberto! Ecco si chiamava Alberto.» «Sicuro sicuro?» «Claro!» «Perfecto!»] Per una volta puoi scegliere in base alla lingua ché è un decennio che non ascolti conferenze in italiano e questi altri qui sono romanistici [come si dice sennò? Romanistici fa un po’ romantici e così si distinguono bene dai tifosi della squadra di calcio, gente senza fantasia] ed è uno splendore, ti entusiasmi su due piedi, come al solito non ci vuole molto, a sentire tutte queste lingue che ti fanno dimenticare l’identità francofona che ti abita da anni e pare, dunque, che ci sia un sacco di roba che ti abita [«E mi ci trovo pure male. Sarebbe stato meglio prendere il trois pièces. Un po’ fuori mano certo, ma sempre sulla linea del tram.» «Ah, beh, se c’è il tram, problema risolto perché puoi leggere sul tram.» «Sul bus è vietato?» «Sei stupido.»] E che italiano magnifico, questi qui, i romanistici non italofoni, parlano meglio degli itagliani d’Itaglia e pensano attraverso la letteratura che nemmeno gli itagliani la sanno. E se quei miei colleghi con la testa piccola, ma piccola così, sapessero di tutta questa bellezza, non ci crederebbero, ne sei certo, e correrebbero qui a distruggerla, e a fare sfoggio della loro coda, meglio non dire niente, allora, meglio tenersela per sé questa lingua che stai qui ad ascoltare e che ti fa dire que ça vaut la peine de parler et écrire dans cette langue. Ed è il momento poi di fare spolvero delle ore passate a leggere in bagno i romanzi italiani, quando invece avresti dovuto prepararti per gli esami di ingegneria e di tutta quella letteratura letta a causa di Olimpia, che quando eravate ancora minorenni e andavate a scuola, pretendeva sforzi neanche a dirlo da medaglia d’oro per studiare tutte quelle pagine [«Però Alberto ne sapeva di cose sulla letteratura.» «Odiava Mr Potter.» «Che ci vuoi fare, sai la gente, no?»] Però resta cool. Non esagerare. Non svaccare adesso. Non fare commenti sulla cucina delle monache. Resta cool. […] Ma ecco che a cena arriva il collega che conosci ed ecco il tuo punto debole. Parlare di Napoli e del mangiare e dell’essere al mare e tutto con sempre troppo entusiasmo [«Come fai a non essere triste, nonostante tutti questi problemi?» «Già le cose vanno male, se mi metto pure a essere triste, vivo male tutto il resto.» «Io invece mi deprimo facilmente.» «E chi te la fa fare? Tieni, mangia questo.»]. Altro che semiotica, linguistica e maccheroni. «Io passo sempre da Napoli quando scendo al sud, sono tre anni ormai che lo faccio, passo tutto il tempo a passeggiare e decidere dove mangiare e poi riparto con una spasera di sfogliatelle.» «Cosa vuol dire ‘spasera’?» Ecco, fatto. E tu che ti eri detto che dovevi essere serio e che finalmente potevi fare sfoggio del tuo migliore italiano, ah, povero te, Alberto. Ma adesso c’è ancora tempo, è solo il primo giorno. Concentrati una volta, dai, ce la puoi fare. Vati curca adesso e ripiglia domani [«A vrai dire, moi j’ai un problème de concentration. C’est pour cette raison probablement que je me trouve bien à faire de la philologie.»] Hai ancora tempo per sembrare intelligente e fare la parte del ricercatore. Cerca di porre domande intelligenti. Cerca di ascoltare. Ascolta, cazzo. Ma sai già che non ce la farai, che è una congiura per te che ami i battelli e le gite: «E stasera gita in battello fino a Lucerna.» E sul battello avrai detto un milione di parole e nello stesso tempo hai pure mangiato tutto quello che c’era [«Ma come fa… ma come fa…»] e ti sei lanciato pure in lingue che non conosci [«Ah, so do you speak spanish? Please, hablamos espanol!» «On fait comme ça. Noi parliamo italiano e voi espanol et portugais.»] e ormai, nella confusione totale di lingue, esseri umani belli e interessanti e che hanno cose da dire e che vengono da ogni luogo, battelli, monache, uomini, donne, letture, quell’autore che ti fa sentire qualcosa sotto il diaframma, vento, tutto questo vento, il tramonto, ti pare di essere altrove. E poi il tempo delle grande idee e tu che cerchi di creare una lobby tra i convenuti all’incontro scientifico, perché ormai sei nel baratro ed è meglio continuare ancora: «Ho una grande idea. Potremmo restare a Lucerna stasera e rientrare più tardi. Qu’est-ce que vous en pensez ?! » Ecco che ci risiamo. Hai dato il peggio di te nel cercare di trasformare un dîner ufficiale in una gita con la scolaresca. Ti comincia a venire il dubbio a volte che ti invitino non per quello che sai, per quello che pubblichi, che abbiano capito che nemmeno a te interessa quello che pubblichi, che abbiano capito anche loro che pubblichi per dimenticare, che ti invitino infine per animare le serate, ah, povero Alberto, non capisci niente, Alberto.
Ma come, come, ti sarà venuto in mente di dire, di spiattellare delle tue speranze di vedere Mr Potter fatto fuori e addio al secchio. È come dire che non ti piacciono i gelati, e a tutti piacciono i gelati. Quando imparerai a fare che sei dalla parte del gruppo, che sì è tutto molto bello e che sei d’accordo anche tu e vuoi ben due boules, s’il vous plaît, stracciatella et pistache, merci. E se non ce la fai, allora stai zitto, dici che oggi hai già mangiato due gelati. Almeno prova ad ascoltare cosa dicono gli altri. È in italiano, ce la puoi fare, è più facile delle altre lingue, anche per te che sei lento e hai il problema della concentrazione [«Molti, in un modo o nell’altro, durante le proprie presentazioni, fanno delle battute di spirito sull’autore di cui stanno parlando e che spesso è la centro delle loro ricerche, snocciolano un aneddoto buffo, raccontano di contrasti con altri autori per esempio. L’ho visto fare decine di volte, ed è triste che lo facciano anche i giovani ricercatori che copieranno lo stile dei più vecchi. Se è un modo per provare a fare ridere, allora bisognerà reintrodurre i corsi di retorica, ma invece credo che da un certo punto di vista sia un tipo di rituale accademico e direi stupidamente cameratesco. Leggevo, per esempio, questi discorsi del secolo scorso, scritti per la consegna di premi agli studenti e di come i professori che consegnavano i premi, facessero dello humor a proposito degli studenti. Mentre dall’altro, dal punto di vista della ricerca storica, credo che sia una spia, un sintomo, per quello che potrebbe essere un fenomeno di sostituzione, non l’identificazione con l’autore o il personaggio, ma proprio sostituzione nel contesto della ricerca storica, dove in assenza di dati e nel vuoto del tempo che separa dagli eventi e dagli autori, si sostituiscono queste mancanze, queste assenze, per altro necessarie per la ricerca, da una parte con le ipotesi di ricerca e dall’altro spesso, nel mezzo del discorso, con degli aneddoti della vita quotidiana. E il fatto di rebaisser gli autori, che capita nel mezzo del racconto di questi aneddoti, non è altro che un indice della violenza del discorso e del tempo, del non essere lì nel passato, del non poter sapere in effetti, di non essere in grado di chiedere direttamente e non essere né l’altro, perché l’identificazione non funziona ed è solo una malinconia estenuante, e nemmeno se stessi, perché si è immancabilmente lontani, consacrando la propria vita a questa ricerca che lascerà sempre un margine di insoddisfazione, un non poter avere che determina quello che si è, un’assenza incolmabile, un appello alla violenza a cui alcuni rispondono con altra violenza e che altri hanno la fortuna di accettare e lasciarsi attraversare.» « Oui, je vois. Mais t’as acheté les olives pour l’apéro ? » « Ah, non ! J’ai oublié ! » « Et voilà, substitue moi ça maintenant ! Les amis arrivent dans dix minutes ! » « Je me suis distrait, désolé, je marchais, il faisait beau. » « A moi aussi il me semble d’être avec quelqu’un qui ne me satisfera jamais. » « Cosa c’entra questo adesso? Di cosa stai parlando?» «L’hai capito benissimo!» «Abbiamo i cetriolini e i capperi.» « Ah, vous les italiens ! Vous n’arriverez jamais à comprendre ! »]
Nella pausa tra le conferenze cammini intorno alla residenza. Vedi costumi da bagno appesi al sole ad asciugare. Pensi alle buone sorelle fare bracciate in grazia di dio nel lago dei quattro cantoni e che tutte contente esercitarsi nel crawl e poi fare a gara a chi trattiene il respiro più a lungo e giù con maschera e boccaglio andare a vedere i pesci e magari fare tutte insieme coreografie artistiche e spruzzare la superiora e tirare giù le novizie. E pensi a come saranno contente e felici di questa libertà, di queste bracciate di libertà. Così decidi di scendere al lago anche tu, perché lo hai visto da lontano dalla tua finestra e devi camminare per respirare e sarebbe stupido non arrivare fino al lago e metti che poi ci trovi uno squadrone di monache in formato acquatico, allora sì che ne varrebbe la pena di essere qui. Mentre cammini non c’è nessuno che ti incrocia e nessuno si sente. Vedere qualcuno impedirebbe ancora una volta di rivenire alla superficie. Ancora una volta: Cosa ci fai qui? Che stanchezza tutte queste domande. E perché poi e come poi? Bisognerà smetterla prima o poi. Pensa alle monache marine, che è meglio. Alla fine speri che non ci sia nessuno, nemmeno al lago e che sia tutto per te, per un attimo. Ma, no, gente e ancora gente dappertutto. Eccoli lì, una ventina di persone che fanno tai-chi occupando quasi tutto l’accesso al lago e non fanno nemmeno lo stile classico delle dodici forme. Dilettanti e ancora dilettanti, ti dici, adesso che occupano tutto lo spazio, ma non puoi impedirti di guardarli e l’acqua immobile, così tanto immobile e nemmeno una sorella al largo a sfidare tutta questa immobilità [«J’ai fait une thèse parce que je pensais de résoudre mes problèmes de cette manière, mais je me suis trompé. Les vieux problèmes sont restés et en plus j’en ai ajouté d’autres que je n’avais pas encore.»] ed è già tempo di ritornare al pranzo che ti aspetta e a quei colleghi che avranno da ridire su ogni exposé e tu dirai sì, sì, come no, è una questione metodologica. E lo dirai per uscirtene in fretta da questi discorsi, ben sapendo che ognuno fa quel che può e che bisognerebbe avere bienveillance per gli altri e per se stessi. E c’è sempre una questione metodologica nelle cose scientifiche. Nelle cose della vita, tutto il resto, bisognerebbe chiedersi dove sta la questione metodologica lì, se c’è la metodologia che ci permette di parlare anche se siamo di campi diversi e di mondi diversi. [«Forse il nostro problema è che veniamo da culture diverse. A volte mi fa pensare e dubitare.» «Sì, sono d’accordo, tu sei stupido, io no.» «Ma perché fai sempre così?» «Così come ?» «Così, così, insomma.» «Tais-toi, maintenant. Viens ici.»]
Poi si ricomincia con altre parole e altre persone e altre ore di studio e cose da sapere e da capire e da spiegare e da farsene una ragione. Tu, sempre più entusiasta di poter sentire qualcosa, pensi a tutta questa energia e passione. Tutte queste conoscenze. Tutta questa gente qui e tutte queste cose che sanno e che fanno senso per loro, che li vedi che fanno senso per loro, che ci credono ancora. Non sai come né dove, ma sembra che facciano senso, tanto ora che nella prospettiva di un’altra vita dove è possibile fare delle conferenze sui battelli e passare la giornata al sole del ponte e col vento e col sole. E nell’assenza della possibilità di scomparire. [« Je pensais qu’il était malade. » « Ah, non, il s’est suicidé. Il a résisté pendant plusieurs années, mais à la fin il n’arrivait plus. » « Je me rappelle qu’il a été le chairman de ma première conférence. Il fut sympa avec moi, que j’étais à ma première expérience. Je ne l’ai pas oublié. »] E ti riviene in mente quello che ti chiedi ancora da tempo che ci sarà un giorno in cui questa pressione della scrittura e questa energia finirà, ci sarà un giorno in cui non sentirai più questo bisogno di gettarti contro la scrittura. Ci sarà un giorno in cui tutto finirà. Ma a vedere questa gente, queste persone che parlano con passione, qualcosa in te si muove, dimentichi per un momento, sei costretto di nuovo a sentire qualcosa, perché «la strategia funziona solo se non si è innamorati.» [«Chiudi la porta che sto dormendo!»]. E ti sembra incredibile, ancora credi che sia incredibile che le tue orecchie abbiano sentito dire, quando non te l’aspettavi, e che fosse vero, che « Je fais la thèse, parce que je sais qu’après je serai changée. », perché è vero, perché è il solo modo per farlo, cambiare e cambiare ancora. Trovare sempre nuove rive. Anche se ci saranno quelli che hanno dimenticato perché lo fanno, che diranno che è naïf, che dopo un po’ passa, quelli che vivono la ricerca come matrimoni arrangiati, che forse di passione non ne hanno mai avuta o che se l’hanno avuta, non hanno capito che era solo l’andare a letto che si fa tra corpi estranei che non vogliono conoscersi, che non dura e gli altri quelli che nemmeno fanno l’amore e a letto davvero non ci sono mai andati, che criticano quelli che ci vanno, quelli che passano la vita a provare ad andarci. E tu sarai cambiata à jamais, perché nessuno che abbia passato tutte queste ore in una biblioteca a leggere, e a leggere, e a leggere ancora, non può essere rimasto lo stesso, perché leggere è il punto, non scrivere, leggere è il problema ed è quello per cui siamo pagati, per fare questo lungo esercizio di lettura, chi più veloce chi più lento, ma leggere. E questi anni servono a leggere. È la sola cosa che conta. Il resto non ha senso. [« Moi, j’utilise aussi une autre technique pour arriver à trouver la force, une raison pour faire ce qu’on fait, surtout quand il faut parler en public. Mais c’est un peu naïve, j’imagine. » « Dis-moi. » « C’est naïve, je t’ai dit. Moi, je conseille toujours de se concentrer sur ce qu’il y a de beau dans ce qu’on fait. Sur ce qui est la source du plaisir dans ce qu’on fait. Le reste, la carrière, l’académie et tous ces trucs-là, ils ne font pas de sens du tout. Pense seulement à ça et essaie de le transmettre aux autres. »]
[« Alberto, pourquoi t’es assis tout seul ? Ca va ? » « Oui, je voulais regarder le lac par la fenêtre pendant le petit déjeuner. Je pense que cette table est la meilleure position. »] [il y a un moment, quelqu’un de l’autre côté de la salle était en train de te sourire] Poi mancano pochi minuti prima che sia il tuo turno di parlare. Non sei ansioso, non lo sei più da un paio d’anni ormai. Ti ricordi quando è successo che tu non fossi più agitato prima di dare una conferenza. Eri in treno e andavi a Lausanne, tutto era già pronto, era la seconda volta che davi questa conferenza, e dovevi solo arrivare – in ritardo come al solito – ripetere il tuo speech e basta. Ed è allora che ti sei detto che cavolo non avevi paura, non c’era stress o ansia, ed è allora che ti sei detto che forse qualcosa era cambiato e che avresti dovuto fare attenzione, che tutto ciò non diventasse banale, che non fosse diventato vuoto e che sarebbe stato grave, altrimenti, non provare più dei sentimenti per quello che facevi e per quello che tanto ti aveva agitato in passato. Adesso manca davvero poco per parlare a questo pubblico di sconosciuti. Per raccoglierne il compenso dal loro battere le mani. Ripeti silenziosamente una serie di consonanti sulle tue labbra. Respiri per fare il vuoto dentro di te, per accogliere il testo e la tua voce. Respiri per fare spazio. Ti prendi ancora un momento. Cerchi di sentire il fondo del tuo petto e i tuoi polmoni con il tuo respiro. Speri di sentire, chaque fois, lì, dentro al buio dei polmoni, ce qui te tient encore ici à faire ce que tu fais. Même si tu ne comprends pas ce que tu fais, quelque chose te tiens encore. [« Pour commencer, laissez-moi remercier l’organisation pour cette invitation. »]
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