Questa mattina, senza che ci fosse una ragione precisa, ho iniziato a pensare a un caro amico che purtroppo da un po' di tempo ha qualche problema, non sta bene e non lo riconosciamo quasi più.
Ci diciamo con gli altri amici che George - lo chiameremo così - è malato, è un po' matto, non sta bene. Fa cose strane. E ci capiamo, annuiamo, siamo tristi per un momento e poi andiamo avanti. In particolare, nei primi tempi del suo malessere, quando tutti noi altri ci siamo accorti che le cose non andassero per il verso giusto, gli capitava di credere di parlare al telefono, di discutere con qualcuno, ma in realtà non stava parlando con nessuno e non aveva nemmeno niente in mano, nessun telefono. Non è passato molto tempo e poi su questo amico è calato il silenzio. Adesso viene automaticamente ignorato nei nostri discorsi e nessuno, infine, vuole andare a trovarlo, né lo invitiamo quando ci vediamo. Non è che non lo vogliamo nel vero senso della parola: è più una sensazione di esclusione silenziosa, senza scontri e senza ragione apparente, dalla nostra cerchia di amici. Lui è lì, ma non è veramente lì. Lui è sempre lui, ma non è più lo stesso e non lo riconosciamo più.
Poi, succede. Cominciamo a non pensare più a George e quando lo facciamo, allora è in modo diverso, e se lo incontriamo per caso, lo trattiamo in modo diverso. Usiamo precauzioni con i discorsi che facciamo nelle conversazioni e le parole che utilizziamo con George. Sono discorsi e parole svuotate di verità e sentimenti. Questo è l'ultimo passo verso l'isolamento e la distanza che mettiamo con lui da noi. Finché non siamo nemmeno più capaci di mentire. E allora la presenza della sua malattia sul fondo della scena, mette in crisi il nostro gruppo di amici e la nostra visione della vita e del mondo. Fa cose, dice cose, che non dovrebbero essere dette e non dovrebbero essere fatte. Non sappiamo chi decide cosa bisognerebbe fare o dire, ma sappiamo che quello che fa George non ha alcun diritto di esistere in queste condizioni. E così il nostro gruppo di amici.
Mi sembra, inoltre, che George abbia col tempo aumentato le sue stranezze, comincia a cristallizzare la sua immagine in queste stranezze. Se prima erano dei momenti inattesi e subitanei, che poi passavano, adesso è come se per essere riconosciuto, per essere guardato, volesse esprimere ancora più forte il suo comportamento che giudichiamo non essere normale, non adatto a noi e agli altri. E come se ci dicesse: guardate la mia malattia, è qui, e mi sta colpendo più forte, per darmi lo slancio per saltare più in alto tra le folla silenziosa e farmi notare, farmi vedere, che nel mezzo di questo grigiume, esisto, esisto ancora. Guardatemi adesso, per favore. Ho detto, adesso, non prima, non com'ero, ma come sono. E perché vuole che lo guardiamo - ci chiediamo - perché insiste, non è possibile, è insopportabile, perché insiste se la nostra prima reazione è di voltare la testa da un'altra parte e trovarci tutti d'accordo in dei silenzi che sono luoghi comuni?
Il silenzio a proposito di George continua. Non cambia nulla. Anzi, più si sforza, più diventiamo silenziosi e ci rinserriamo nei nostri cappotti per proteggerci da questo freddo. Ma nella nostra testa, almeno in quella di chi non riesce ad alzare muri solidi di indifferenza e protezione, nei ricordi della primavera, sta succedendo qualcos'altro. Abbiamo questa preoccupazione costante sulla possibilità che se ha sviluppato questa malattia, e se ha avuto questo legame molto forte con noi, probabilmente anche noi abbiamo la possibilità di ammalarci, che la malattia sia qualcosa che sta ancora lì tra noi, che sia entrata anche dentro di noi. Nonostante qualcuno del gruppo cerca di ridurre la questione con un "George ha sempre avuto problemi, è sempre stato strano, viene da una famiglia strana, è genetico, ha fatto delle scelte che lo hanno portato a quello che è adesso, è sfortunato, George è George, sapete com'è, no?", sentiamo che se qualcuno così vicino a noi può stare così male, può iniziare a dire e fare cose del genere, anche noi possiamo essere colpiti. La sensazione di un possibile contagio, di una possibilità che il mondo come l'abbiamo vissuto finora non sia quello che ci aspettavamo dovesse essere, si instaura e blocchiamo ogni accesso al nostro cuore. Ci rifiutiamo categoricamente. Ricorriamo alla razionalità, le nostre braccia immobili grondano razionalità. Scomponiamo i fatti. Analizziamo tutti i dati e tutte le affermazioni in nostro possesso. Dobbiamo sapere quello che sappiamo. Non c'è spazio per i dubbi. Un minimo dubbio potrebbe essere fatale. Ne parliamo con il nostro psicologo che ci rassicura, ché nonostante siamo amici di George, non siamo George, noi siamo diversi. George è George. E nient'altro.
Tiriamo un sospiro di sollievo e tutto pare andare di nuovo bene. Finché vivendo in una piccola città, incontriamo di nuovo George, si ostina malgrado lui e malgrado il fatto che noi, gli altri amici lo ignoriamo a farsi vedere in giro e a passare dai posti dove potrebbe incontrarci. Nemmeno la gentilezza di andare a nascondersi da qualche parte dove nessuno di noi potrebbe vederlo, nemmeno un minimo di dignità di farsi vedere in questo stato. Utilizziamo le strategie consigliate dal nostro psicologo per far fronte a queste continue figurazioni di George che fa finta di parlare al suo telefono immaginario e che fa quello che uno come lui. Maledetto George.
Ma il dubbio non ci lascia in pace e, infine, non possiamo fare a meno di pensare che se ha sviluppato questa malattia, mentre viveva stabilmente nel nostro stesso sistema di relazioni e di vita, allora ci diciamo che è possibile che in questo nostro sistema di vita e nella nostra rete di rapporti possano verificarsi queste malattie. È possibile che questa rete di relazioni, la nostra vita e il nostro mondo non siano quelli che pensavamo che fossero. Ma cerchiamo di concentrarci sui fatti: la maggior parte di noi altri amici sta bene, e finora le nostre relazioni ci hanno fatto bene, ci hanno permesso di condurre la nostra vita felicemente, almeno così pensiamo, e mantenere la nostra amicizia. L'amico malato, George, mina il nostro mondo e i nostri sentimenti di sicurezza tra persone che si riconoscono e sono rassicurate da questo riconoscimento e accettazione: sei con noi, sei come noi, faremo di tutto per mantenere intatto questo gruppo, la nostra amicizia, la nostra vita. Ti vediamo, ti riconosciamo. Ci vedi, ci riconosci. Scacciamo la solitudine e stiamo bene insieme. Serriamo i ranghi, ci tiriamo più forte l'uno verso l'altro, per tenerci in piedi a vicenda, prima di lasciare andare del tutto e il gruppo si frammenta. Una volta che il silenzio su una cosa si è instaurato, allora divora tutto il resto, mi ha detto una volta qualcuno. Il nostro gruppo diventa una costellazione di gruppi. Altri silenzi e buone maniere e come sta la famiglia?
Tra un gruppo e l'altro, comincio a pensare: e se fossi io? Come mi sentirei se la mia vita e la mia malattia fossero ridotte a questo isolamento improvviso, un rapido cenno della testa fatto da lontano, mentre si continua sulla propria strada? Se ne fossi cosciente, preferirei il silenzio, come quello con cui soffochiamo George, o vorrei parlare di me e della mia malattia tutto il tempo? Non sarebbe strano tutto questo parlare? Perché i miei amici dovrebbero o vorrebbero sempre parlare della mia malattia? Cosa spingerebbe i miei amici a parlarne in continuazione e a diffondere la notizia tra altri amici e persone che nemmeno conosco? Cosa ci guadagnerebbero a fare questo? Perché la mia malattia dovrebbe diventare un argomento di discussione pubblica? Una di loro magari mi consiglierebbe di andare a vedere la sua psicologa, che è una brava persona, in gamba, e che ha fatto miracoli con suo marito Francis, che ora è tornato alla normalità, è tornato come prima. Prendo il biglietto da visita della psichiatra di Francis e non ci vado. Credo che qualcuno di cui si dica che possa tornare come prima, stia mentendo e che la sua psicologa vada bene per rassicurare la mia amica sulla salute di Francis, ma non per curare quest'ultimo - sempre che Francis voglia farsi curare, sempre che qualcuno possa curarlo.
Comincio, allora, per davvero a comportarmi come George, l'amico malato. Faccio la stesso percorso, vedo le visite dei miei amici ridursi di molto, i discorsi girano sempre intorno al problema, i silenzi sono luoghi comuni che mi fanno perdere la voglia di vedere questi amici. Così comincio a fare nuove amicizie con persone sconosciute prima di allora e che avrei definito strane. Vado persino a cercarle, perché non voglio essere giudicato, perché sento questa sensazione di pericolo nell’animo dei miei amici e mi tengo ben lontano. Come George, certo, a volte mi capita di incontrarli per strada o di ritrovarci negli stessi posti. Ma ormai tutti siamo diventati dei professionisti a non dire niente, a fingere, ad andare avanti ogni per la sua strada. Al contrario, quando i miei nuovi amici, strani e sconosciuti, mi dicono che sono io ad avere ragione e che sì, quello che tengo nella mano vuota è davvero il mio telefono anche se nessuno può vederlo, io ci credo. Ora sei con noi, sei come noi, sei tu che hai ragione: non sei più solo, non sei più solo. Mi metto a sviluppare e affinare le stranezze del mio comportamento, mi lascio andare: "Si è lasciato andare". Divento George.
Tra me e i miei amici di un tempo una sensazione di estraneità domina la scena. Non ci riconosciamo più. Non abbiamo nulla da condividere. Siamo estranei. Come se fossimo sempre venuti da mondi diversi, ma solo ora ce ne rendiamo conto, la verità salta fuori. Nessuno protegge nessuno, nessuno guarda nessuno. Ci siamo rispettivamente classificati: io sono quello malato, i miei amici sono quelli buoni, quelli che hanno imposto il silenzio, quelli che sanno cosa fare, che dovrei ascoltare, anche se nel mio animo sento che tutto sta cadendo a pezzi e che questo mondo non corrisponde più alla mia vita, questo mondo che non crede che io pensi di avere un telefono in mano, anche se non c'è niente, che non crede alle mie lunghe discussioni con il mio telefono immaginario. Questo mondo che non capisce che una volta che ho cominciato ad accettare una cosa così, accettare di credere in qualcosa, tutto il resto seguirà. E non sarò più lo stesso.
Il mio riconoscermi diventa il non riconoscermi più con i miei amici. Costruisco i miei discorsi sulla stranezza che sento verso di loro e sul sostegno che mi danno i miei nuovi amici, tutti strani e sconosciuti, come me secondo i vecchi amici, ma tutti come me, se siamo tutti estranei. La direzione è segnata. È difficile tornare indietro. Il tempo passa, le nostre vite vanno avanti in un modo o nell'altro. Dopo la prima fiammata le cose si calmano, le nuove relazioni prendono la loro solidità e diventano stabili e continue. Si crea un nuovo paradigma e un nuovo gruppo - anche l'esclusione fa dei gruppi, anche una singola persona fa un gruppo. George è stato il primo a fare gruppo. Adesso siamo tutti noi altri. Dopo anni, se non siamo morti, ci incrociamo per strada con qualcuno tra loro, gli amici di prima, ci facciamo un cenno con la testa, finalmente ci capiamo, perché conosciamo la storia accaduta, ma restiamo a distanza. Con altri non c'è nemmeno un saluto. Ci siamo persi e siamo ancora cristallizzati nella stessa postura. Non ricordiamo nemmeno più chi è quella persona che ci saluta dall'altro capo della strada. Non sappiamo nemmeno se la conosciamo. E nemmeno ci interessa ormai. Troppo tempo è passato.
Mi chiedo, allora, dopo questa proiezione in un futuro possibile, come ritrovare il legame con George che non sta bene. Come fare a bloccare i discorsi silenziosi. Se è vero che George posso essere io, allora devo iniziare a pensare alla sua malattia come un'opportunità per capirmi. Comincio a interiorizzarlo coscientemente e cerco di capire. Ci vuole tutto un esercizio spirituale che può richiedere molto tempo per mantenere la mia identità e il mio spirito e allo stesso tempo fare spazio a questo amico malato. Comincio a dubitare delle parole degli altri amici su di lui, rifiuto sia il silenzio che lo ignora ed elimina, sia il silenzio che esclude la sua malattia dai nostri discorsi. Comincio a rifiutare chi ne parla con gli altri. Poi comincio ad andare a cercarlo. Parlo di tutto tranne che del suo telefono, che crede di avere in mano e con cui si perde in lunghissime conversazioni. Io aspetto sempre che finisca le chiamate immaginarie per continuare a parlare con lui. Se, quando sto per andare via, mi dice chi mi chiama con il suo telefono, allora gli dico che per me va bene, ma potrebbe usare anche l'altro telefono, quello che funziona meglio e che in ogni caso non è il telefono il problema. Non è il suo telefono immaginario che ci ha tenuti lontani a me e a lui, e anche a tutti gli altri amici di quel gruppo che ormai è tanti gruppi.
Il problema siamo noi e dobbiamo fare qualcosa per trovare un nuovo modo di parlarci, senza demandare agli altri, senza aspettare che qualcuno arrivi a risolvere le cose, che ci dica che adesso è il momento buono. Il problema siamo noi che non abbiamo il coraggio di prendere la parola, di chiamare quell'altro che mette in crisi le nostre certezze, che crea fessure nella nostra vita, normalità, fatta da non voler sapere e non voler dire e non voler chiamare George. Con uno o l’altro dei nostri telefoni. E la parte più difficile in tutto questo è non aver paura.
Comments