Potrebbe darsi una volta nella vita che rispettare la legge non sia sempre la scelta possibile. Se la legge è uguale per tutti e tutti sono uguali davanti alla legge, si potrebbe essere costretti un giorno a scegliere di rispettare o trasgredire la legge, ben sapendo che lui e lei non saranno esenti dalle sanzioni imposte o, al contrario, essendo certi che agendo secondo la legge non ci sarà ragione di essere condannati, criticati o passati in giudizio. Sull’altra sponda stanno quelli che devono far rispettare e applicano la legge. A loro la scelta non sarebbe permessa. L’affermazione, in cui mi sono imbattuto diverse volte purtroppo quando chiedevo che ci fosse dell’ascolto delle ragioni, : “è la legge che mi obbliga”; se da un lato rende chiaro l’aspetto strumentale di chi utilizza tale frase e la sua responsabilità nel non voler ascoltare e nel decidere di essere strumento irresponsabile – se di responsabilità si può parlare – dall’altro mostra la distanza che c’è dalla possibilità di scelta e dal varcare la soglia della responsabilità che ognuno ha quando decide di agire, di scegliere di non rispettare delle regole, anche se a volte tale decisione non è riflettuta e pensata in tutte le conseguenze. Non sono un giurista, ahimè, e so che le cose sono più complicate di così, ma questi pensieri mi girano in testa da qualche giorno : che cosa vuol dire infrangere la legge? In che senso si infrange la legge? E perché in alcuni casi potremmo essere costretti a fare una scelta?
La vicenda dell’arresto del sindaco di Riace, Domenico Lucano, pare per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (“l’ingresso e la permanenza illegale nel territorio di stranieri senza titolo”), mi ha spinto a pensare a questa possibilità di scelta di rispettare o no la legge in situazioni quotidiane e in contesti di urgenza e mi ha fatto venire in mente altre storie. La prima è quella di Paul Grüniger (1891-1972), calciatore in gioventù e in seguito capo della polizia cantonale di San Gallo in Svizzera. Fino a prima l’inizio della seconda guerra mondiale nel 1939, nel biennio 38-39, Grüninger fece entrare in territorio elvetico, in modo indiscriminato, ricorrendo alla falsificazione dei documenti, centinaia di persone di origine ebraica in cerca di rifugio dalla Germania nazista e dall’Austria. Dopo due anni di questa attività, fu sospeso dai suoi servizi e in seguito radiato dalla polizia senza diritto alla pensione e condannato al pagamento di una multa (http://www.eiu.edu/~eiutps/holocaust_grueninger.php). Ecco una sua dichiarazione reperibile in rete : « Non mi vergogno del verdetto della corte. Al contrario, sono orgoglioso di aver salvato la vita di centinaia di persone oppresse. L’aiuto agli ebrei era radicato nella mia concezione di cristiano [...] la ragione di salvare vite umane minacciate con la morte, è stata da me ritenuta fondamentale. Come avrei potuto, quindi, prendere in seria considerazione "calcoli" e schemi burocratici? Certo, ho consapevolmente superato i limiti della mia autorità, e spesso con le mie stesse mani falsificato documenti e certificati, ma l'ho fatto al solo scopo di permettere ai perseguitati di accedere al Paese. Il mio personale benessere, commisurato al crudele destino di quelle migliaia [di perseguitati], era così insignificante e così poco importante, che non lo ho mai preso in considerazione. » (http://www.yadvashem.org/yv/en/exhibitions/righteous/gruninger.asp). Ci vollero sessant’anni, fino al 1995, due decenni dopo la sua morte, affinché fosse riabilitato (http://www.paul-grueninger.ch/index.html).
Un’altra storia che mi è passata per la mente si pone sul lato opposto a quello di Grüningen. Ho pensato a un funzionario che ha fatto rispettare la legge fino in fondo senza domandarsi le conseguenze dei suoi atti – anche se le conosceva -, obbediva agli ordini e lo faceva bene, in modo efficace e da perfetto organo aderente all’ideologia in voga e sentendosi moralmente irresponsabile davanti alla legge grazie al suo ruolo strumentale d’esecutore d’ordini. Nel 1961 Hannah Arendt si recò in Israele per seguire il processo a un funzionario nazista, Otto Adolf Eichmann (1903-1962). Durante gli anni del regime nazista Eichmann doveva pianificare le deportazioni degli ebrei, organizzare che i convogli verso i campi di concentramento e di sterminio viaggiassero senza intoppi. Ed è quello che fece, senza preoccupazioni morali, perché sotto la coperta dell’aderenza alla ideologia nazista e alla legge vigente, nessun dubbio arrivava a disturbarlo : « (…) era stato sempre un cittadino obbediente alla legge, perché gli ordini di Hitler, che eseguì certamente al meglio che poté, avevano forza di leggedurante il Terzo Reich » (Arendt 2002 [1963] : 1042, ed. francese). La linea di difesa di Eichmann, per ridurla in modo grossolano, era che aveva semplicemente eseguito gli ordini al meglio che potesse fare. Se Eichmann non avesse seguito la legge e gli ordini che gli venivano dalla gerarchia, allora forse sarebbe stato un eroe o solamente avrebbe perso il suo posto o addirittura la vita. Oggi lo ricordiamo come un aguzzino, un esempio da non seguire, un monito che ci avverte che a volte bisogna prendersi alcune responsabilità oltre l’affermazione: è la legge che mi obbliga. Certo, sempre che questa legge e l’ideologia soggiacente non ci soddisfi. Eichmann fu condannato a morte.
Ho cominciato a pensare, se un Eichmann si trovasse a Riace o a Lampedusa o sulle navi italiane nel mediterraneo o ovunque nel momento in cui davanti ai suoi occhi i barconi calano a picco e le persone affogano e lui, lì sul molo a guardare. Immaginatelo aggirarsi nei campi di accoglienza e firmare i fogli di rimpatrio. Immaginatelo a dover applicare le leggi e seguire gli ordini del suo ministro e le leggi in voga fino nei minimi dettagli. La deriva autoritaria che si avventa sul paese e il delirio della formalizzazione, di mettere delle regole anche a fenomeni che sconfinano nelle questioni umanitarie, di inscrivere in delle colonne di categorie i buoni e i cattivi migranti, le prese di posizione di chi pensa di parlare per tutto il paese e di chi pensa di sapere sempre che cosa sia giusto e cosa sbagliato, e quindi che non ci sia possibilità di scegliere altrimenti, porteranno a problemi sempre più gravi e ancora di più sono indice di irrazionalità e violenza, anche se ammantati da tutto un parlare e una struttura che tende a presentarsi sotto la veste della razionalità e della legalità. Come mi faceva notare un’amica c’è un rischio sempre presente nella formalizzazione, nell’ingombro della discussione dei dettagli e nella sommersione dalla procedura. Nella struttura procedurale non c’è fine che giustifica i mezzi, perché c’è solo la procedura e l’applicazione di essa e il termine giustificazione è messo fuori gioco e sostituito con i termini di obbligo e di rispetto. Ancora di più nella struttura procedurale si diluiscono le urgenze e gli imprevisti e si annullano, in ogni tentativo di categorizzare e formalizzare la realtà seguendo la procedura e, infine, nella formalizzazione della procedura stessa, il sentire che potrebbe spingere a scegliere di fare altrimenti – tanto nel bene che nel male, scegliere di salvare delle persone o di non salvarle.
Quello che trovo interessante in queste diverse storie è che non ci troviamo di fronte a degli intellettuali o a degli ideologi. Quello che hanno fatto o non fatto sembra essere dettato da un certo buon senso, nel male e nel bene – e anche se dietro questo buon senso si possa nascondere un fantasma ideologico. Se Lucano ha infranto la legge per aiutare delle persone in difficoltà, non mi sento di condannarlo. Anzi ha fatto bene. E spero che la storia lo confermerà. Se Grüningen infranse la legge, sulla temporalità storica ha fatto il meglio che potesse fare. Sappiamo ormai che non fu giusto condannarlo. Se Eichmann ha rispettato la legge, facendo anche secondo la sua difesa il meglio che poté, oggi sappiamo che fu un errore. Ma sono preoccupato oggi e credo che bisogni fare attenzione, perché stiamo preparando il terreno a tanti altri Eichmann, ecco quello che stiamo preparando. E la storia ci giudicherà. E dobbiamo essere pronti a scegliere.
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