Durante un’intervista Ian McEwan al giornalista che gli chiedeva perché i suoi libri fossero tutti differenti tra loro, rispose che nel mezzo c’era stata la vita che aveva fatto in modo che i suoi libri fossero differenti, perché tra un libro e l’altro bisogna metterci della vita, bisogna vivere. Questo periodo di confinamento fa parte dellanostra vita, ma che vita stiamo vivendo e che racconto possiamo farne adesso e come fare per raccontare tutto ciò dopo che sarà finito? Questo periodo ci fa domandare: è sempre la nostra stessa vita? E soprattutto ci mette di fronte alla domanda: abbiamo davvero qualcosa da dire? E dopo avremo qualcosa da dire? E tutti parlano di cambiamento, ma le cose cambieranno davvero? E come fare per facilitare questo cambiamento?
La pandemia in corso diffondendosi da un paese all’altro ha portato con sé una traccia di testi e immagini e allo stesso tempo ha imposto una ricorsività e una struttura circolare nella quotidianità e nella produzione dei contenuti. Se all’inizio la situazione è apparsa del tutto nuova, quasi immediatamente si è instaurato un carattere di ripetizione, di già visto e ormai con il tempo che passa sempre uguale e, con le ripetizioni che si susseguono, di déjà vu (è vero? L’abbiamo davvero vissuto? Quando è successo? Stiamo sognando?). Al primo momento di sorpresa, si sono accompagnate le dichiarazioni ufficiali e i commenti delle istituzioni e dei politici, seguite da quelle del mondo della cultura e dell’economia. Col passare del tempo, e anche passando da un paese all’altro, queste dichiarazioni hanno cominciato ad assomigliarsi tutte. All’inizio il rifiuto di accettare che la situazione fosse o potesse diventare grave e di prendere delle misure adeguate e in certi casi drastiche. E’ stato il caso di Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera, Francia, e adesso il Brasile che insiste nel rifiuto. Anche l’Italia ha fatto la sua parte con tutti i leader della sinistra e quelli dell’estrema destra che invitavano la gente a uscire e a fare sport (o adesso ad andare in chiesa), scoprendo in seguito che alcuni di questi stessi leader avevano contratto il virus (Nicola Zingaretti, e per l’estero Boris Johnson). In seguito c’è stata una presa di coscienza e un cambiamento radicale di posizione con la decisione di confinare con misure meno o più radicali tutta la popolazione dei diversi paesi. In questo momento forse qualche miliardo di persone stanno chiuse in casa aspettando che tutto passi.
Dal momento in cui l’allerta è stata lanciata c’è stata una continuità ininterrotta e allo stesso tempo una ripetizione delle statistiche giorno dopo giorno e delle immagini sempre nuove, ma infine sempre le stesse. I media hanno cominciato a produrre testi e immagini e migliaia e migliaia sono già le pubblicazioni tra articoli di opinione, commenti dei dati, analisi politiche, riprendendo e rilanciando anche le comunicazioni istituzionali. Tutte queste informazioni sono rilanciate e moltiplicate dalla gente nei social media. Nel mezzo di tutto questo fermento, gli autori, scrittori e simili, lasciano una scia di scrittura, immagini e post sui social media giorno dopo giorno e anche più volte al giorno. E già ci sono i call for paper e call for artist, tutti che suonano come “l’arte al tempo del confinamento”, “arte e virus”, “politica e virus”, “la scrittura e il virus” e tutte le variazioni possibili - e a dire il vero sono già del tutto insopportabili. Questo flusso di scrittura e comunicazione ci sommerge e non possiamo opporre alcuna resistenza a questo mare di informazioni e di ripetizioni che si è messo tra noi e il mondo, non potendo uscire di casa o facendolo solo raramente, essendo separati fisicamente dai malati, ed essendo tale separazione non solo fisica, ma anche mentale, finché qualcuno con cui abbiamo contatti frequenti o un familiare non sia malato – e anche in quel caso la natura della malattia impedisce di stare con lui - e non avendo in tanti un contatto diretto con la malattia e apprendendo le notizie attraverso i mezzi di comunicazione, come in un’altra infinita serie tv con i comunicati e le ridotte variazioni che si susseguono giorno dopo giorno. Al contrario, per provare a resistere, a raccontare, abbiamo ingrossato e ingrossiamo il mare di testi. A questi testi e immagini infatti si è sovrapposto il racconto della quotidianità circolare della struttura spaziale e temporale in cui viviamo. La routine e la limitazione che si è instaurata ha prodotto una prima reazione della gente che ha cominciato a pubblicare testi, video e messaggi, riguardo la sua permanenza forzata in casa riempiendone lo spazio dei social media e delle discussioni private. Adesso, dopo un mese di confinamento, si sente come qualcosa di già detto e già vissuto, qualcosa di scontato come le forchette che usiamo per mangiare ogni giorno e di cui non distinguiamo più i dettagli.
La struttura della temporalità e della spazialità che caratterizzano il nostro quotidiano attuale, infatti, non corrisponde alla vita e al tempo del racconto che eravamo abituati a raccontare e a raccontarci. In questo periodo c’è un’assenza dell’immediato futuro, non sappiamo cosa capiterà, non sappiamo se ci ammaleremo e contiamo di 14 giorni in 14 giorni da ogni possibile contatto e contagio e non sappiamo quando riprenderemo la nostra vita precedente. E il futuro sul lungo periodo appare nella struttura della promessa e della speranza: dobbiamo crederci, anche se non ne abbiamo la certezza. Se il presente appare ripetitivo e ridondante nello spazio vissuto del nostro luogo di confinamento e negli eventi strutturalmente consonanti uno con l’altro, anche le previsioni per il futuro cominciano a somigliarsi. Tutti a dire e a ripetere in continuazione che le cose dopo questa crisi non saranno più le stesse, nessuno e tutti a dire come fare, ma anche in questo caso in una successione e una ripetizione che appiattisce le dichiarazioni e le diluisce nella ripetizione temporale. L’altro giorno leggendo una dichiarazione di Bruno Latour (o Judith Butler o Noam Chomsky) mi sono chiesto se fosse stato lui o il mio vicino di casa su Skype a dirlo per primo – e tra loro e il mio vicino cominciavo a non vedere più differenza ormai. E questo appiattimento era dovuto tanto al fatto che tutti parlavano dal loro divano, nel loro salone, in qualche appartamento da qualche parte, con una struttura visiva che si ripeteva di città in città, di salone in salone, quanto al fatto che tutti ripetevano la stessa cosa: non possiamo continuare così, un cambiamento è necessario. Ma come? Ma quando? Restano ancora domande inevase che frastornano prima e poi diventano un pensiero di retroguardia nella ripetitività e prolungamento delle nostre giornate.
In questa sospensione del racconto allora due strade possibili per raccontare si fanno intravedere, anche sono la stessa strada per certi versi. La prima guardava verso l’interno o come si dice, dentro di noi. Alcune vecchie domande degli esseri umani, sempre le stesse, vengono a galla: e se fosse del tutto insensato? La nostra vita, il nostro essere al mondo qui, adesso? E se capissimo che era insensato già prima di questa crisi? Forse la differenza consiste nel fatto che adesso lo vediamo più chiaramente. Per allontanarsi da questa realtà (che chiameremo morte), lo spiritualismo usa e getta e il marketing mindfullness è piombato come un falco sugli inermi pulcini. Migliaia di corsi di yoga e meditazione mainstream online hanno occupato lo scroll dei nostri schermi. E se per un periodo hanno riempito la pancia, come uno spiritual crisis comfort food, ma in verità non riflettono altro che il vuoto spirituale e di vita con cui ci siamo nutriti durante questi anni e a cui adesso siamo confrontati e che cerchiamo di tappare abbuffandoci. Non abbiamo niente da dire, siamo sperduti e barricati in casa, siamo intabarrati a ogni mettere il naso fuori e cerchiamo nelle formule stereotipate, quelle che altri ci dicono che vanno bene, un modo per tirarcene fuori da questo vuoto. Ma queste formule espongono la desolazione del vuoto che avevamo avuto la possibilità di ignorare durante molto tempo. Ci si legava prima a queste formule, per la nostra ora di “faccio yoga e meditazione per centrarmi e dare un anestetico alla mia coscienza (e certo fa bene alla salute)”, e ci si lega ancora di più a tali formule adesso. E’ una pioggia di statement: farsi del bene, rigenerarsi, riconnettersi, osservarsi, ritrovarsi, ritrovare il suo vero io, portare in superficie, abitare la nostra realtà, abitare il quotidiano, abitare la terra, abitare il proprio spazio interiore, vivere la sua vera natura, essere in connessione con l’universo, benevolenza, rinforzare il sistema immunitario, del tempo per sé, sentire la terra, sentire il pianeta, sentire l’altro, ascoltarsi, interiorità, vero, piena coscienza e - il mio preferito - vivere la vita. Ma l’impossibilità di mettere tutto questo effluvio in contrasto con gli altri, con altri momenti della vita, essendo rimasti soli, queste formule, anche per i più ciechi, cominciano o dovrebbero cominciare a diventare sempre più insensate, mentre la minaccia della malattia e della realtà tende agguati a ogni angolo. Possiamo dirci quello che vogliamo, ma la realtà è che non c’è niente da scoprire amici, siamo sempre gli stessi, e se saremo cambiati lo sapremo solo dopo che sarà finita.
La seconda possibilità è ancora un’altra fuga per ritrovare la nostra natura e attualmente corrisponde anche alla sola possibilità del racconto che stiamo facendo. Se il presente sbatte contro il vetro della bottiglia dentro cui viviamo e se il futuro è incerto e indeterminato e sempre rinviato, quello che resta è il passato. Il passato occupa tutto lo spazio e diventa la fonte di racconto e di storie. Il passato si impone come canone per raccontare una storia. Allo stesso modo il passato si impone per cercare di capire quello che sta succedendo adesso e come hanno fatto altri prima di noi a uscirne fuori. E succede tanto rileggendo i casi delle epidemie precedenti nella storia, quanto cercando nella letteratura delle possibili spiegazioni e mondi possibili (la vendita di alcuni romanzi legati a racconti di epidemie ha fatto parte della prima ondata di reazioni).
Ma il passato si declina su temporalità e esperienze diverse. E se ci rendiamo conto che anche la ricerca di una spiritualità e del “nostro vero io”, altro che non è che un’altra forma di ricerca del passato, un sostituto comodo per nascondersi alla realtà, vediamo che questa ricerca ha preso lo spazio anche della biografia della quotidianità di ciascuno. In molti, almeno all’inizio di questo periodo hanno annunciato o hanno colto il momento come una possibilità per cercare di finire i progetti che avevano cominciato e che avevano lasciato andare per mancanza di tempo, di concentrazione, di volontà, pensando che adesso avrebbero avuto il tempo necessario per fare questo lavoro, per recuperare il passato, per fare in modo che il passato faccia senso. Oppure in questi giorni sui social media la gente partecipa a quello che è chiamato un challenge pubblicando foto della loro infanzia o giovinezza. Cercano di trovare il senso del loro essere adesso guardando a un esercizio genealogico. Mentre chissà se i primi stiano riuscendo a realizzare quello che si erano proposti - anche se non saranno ormai più gli stessi vecchi progetti e saranno realizzati in un mondo diverso -, i secondi esauriscono in un post e in una condivisone le immagini della loro giovinezza - prima che tutto ciò capitasse, come eravamo felici nella nostra vita precedente, da dove veniamo. Così dopo aver esaurito rapidamente tutto quello che c’era da raccontare dei dettagli della loro nuova quotidianità, non resta che provare a esaurire anche il passato.
In tutta questa ricerca di senso per il tempo che passiamo nel nostro nuovo mondo, un caso interessante sono quelli che reclamano il diritto di non fare niente, di restare nell’immobilità senza essere creativi, senza dover produrre. Semplicemente non vogliono agire, aspettano che qualcosa succeda e che ricomincino. Se da un lato reclamano il diritto a opporsi a questa smania di produttivismo, dall’altro fanno tutto il giro obbedendo strettamente alle raccomandazioni delle autorità in carica, come dei Null Achtzehn nella pandemia. Abbandonata ogni forma di resilienza e la sua retorica, lasciano semplicemente il tempo passare, facendo luogo di estraneità da se stessi. Immagino - e ne conosco - che quelli che chiedono di non fare niente, probabilmente sono quelli che non facevano niente già prima: la loro posizione non è cambiata, solo che ora reclamano il loro diritto di esistenza nel vuoto e nella singolarità della loro vita, quando tutti ne pretendono l’appropriazione e cercano di destabilizzarli, non capendo che per alcuni il passo è più breve. È come quando un amico mi ha chiesto come stavo psicologicamente in questo periodo, se stavo peggio o meglio, io ho detto che stavo male già prima e che quindi questo periodo non faceva molta differenza, anzi mi ci trovavo del tutto a mio agio – se non fosse per la mancanza del contatto fisico, che estendeva le mie giornate di solitudine per scrivere e leggere indeterminate (e mi pone un’altra domanda: che conseguenze avrà nel tempo il fatto di non potersi toccare?).
In un modo o nell’altro questa nuova forma di vita non è quella che si viveva prima. Che cosa raccontiamo se non c’è niente che succede come siamo abituati al fatto che succeda? Se non c’è la vita che siamo abituati a raccontare? E soprattutto perché raccontare, se dopo non c’è niente ? E se sarà così la nostra vita? Se la nostra vita è questa? Di che cosa possiamo parlare? Che cosa ci diremmo quando ci rivedremo? E quanto tempo dovrà passare per poterne parlare? Finalmente potremmo scoprire di non avere niente da dire. La verità è che se questa situazione continuerà non avremo più niente da dire. Non abbiamo messo della vita tra una storia e l’altra, non c’è niente che succede e non c’è nemmeno gioia o drammi se non attraverso dei racconti che si ripetono, niente. Come per la morte ai funerali: si parla dei dettagli (come e perché) ma tutti sanno di che cosa si tratta. Si parla dei ricordi del passato del deceduto, ma nessuno mette in dubbio di che cosa si tratta. Poi dopo un po’ anche i ricordi non sono più di attualità, il presente occupa lo spazio e resta silenzio per i deceduti, finché anche quelli che ne conservavano memoria, muoiono a loro volta e allora non resta più niente. E anche se per ognuno è diverso e se ognuno ha bisogno del tempo per elaborare il lutto, e anche se si ha la necessità di raccontare a qualcuno, tutti sanno che parlarne è superfluo. La morte resta il limite del racconto.
Nel nostro caso, nell’assenza dell’elaborazione del lutto e nella necessità dei riti funebri, ci si propone il famigerato e temerario “ritorno alla normalità” sbandierato dalle istituzioni. Ma questo non ci permetterà alcuna elaborazione, se non sapremo che non c’è alcun ritorno, che il passato è bello che andato e alcuna normalità, e che il tempo ci è stato preso in una ripetizione continua. Alcuni dicono che questo periodo porterà nuove forme di racconto. Per ora è sempre lo stesso racconto e in seguito al limite porterà delle variazioni e possibilità nella coscienza del racconto. Altri dicono e sperano che le cose cambieranno, ma a forza di dirlo stanno esaurendo l’energia che ci vuole per cambiare.
Prepararsi a quello che sarà e a raccontare quello che è stato, non significa scappare dentro una finta e puzzolente interiorità - che serve solo da guscio per non vedere -, ma al contrario aprire gli occhi, accettare l’inesorabilità della situazione attuale, fare come se questa fosse la nostra vita, adesso e dopo, e non rimandare la presa di coscienza verso finte interiorità o verso un futuro indeterminato. Credo che al contrario bisogna pensare questo momento come per il racconto che ne dobbiamo fare adesso. Pensare che questa è la normalità e che non ci sarà fine a questo periodo serve per poter essere coscienti adesso - senza fughe nel passato che non insegna, nel avremmo potuto fare questo o quello se ne avessimo avuto il tempo, senza fughe in bagliori di interiorità. Bisogna organizzarsi adesso come se non ci fosse un domani possibile per ulteriori discussioni e ancora discussioni e teorie. Credo che la sola cosa che ci resta da fare sia smetterla di scrivere, di cercare di riempire e riempire, di voler dire qualcosa quando non c’è niente da dire. Essere dritti in piedi davanti la morte e smetterla di scappare nelle ombre di un passato perduto. Metterci a leggere, prendere dalla morte e dai racconti e dalle vite già finite, allargando il nostro presente di letture e nutrire le nostre risorse. E finalmente fare un po’ di silenzio, accettare che non c’è niente da dire magari, raccogliere le energie e aspettare, ed essere pronti, di nuovo, più forti per cogliere la nostra occasione grazie a questa perdita di speranza e afferrare il presente che sarà e agire compagni.
(Immagine disegno di Marisa Cornejo)
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