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  • You have to strike, assholes!!!

    (originally published on AllegraLaboratory) You ask, "What concrete actions can we take?" You have to strike, assholes! We need to take the example of Aboubakar Soumaoro in Italy, who organized the 21 May strike of agricultural workers to demand more rights. The labourers have no food, no water, no house, most of them have made a long and dangerous journey to reach Europe, the workers are mainly migrants, but among them there are also Italians, and now they have decided to strike. How do the farm workers, those who prepare your fruit baskets for your conferences, which you eat while you hypothesise about their lives, manage to organize a strike when they have no rights, no contracts, no residence permits? Those with no homes, whose scant wages would at best allow them to die slowly of hunger, can drum up the energy and the wherewithal to organise, and you can’t do anything? Start to know what is really important for the system, and start to boycott it from inside and outside. You mustn’t be afraid of losing your bourgeois privileges. If you’re together, you’re not afraid. If you are alone, then yes, you must be afraid, because you will more easily fall prey to the hawks of human resources, to those who want to cut your teaching contracts, those who tell you that you are worthless, to those who blame it on the financial crisis while they build a fucking Aula Magna. Okay, that is easy for me to say because I have nothing to lose, I understand that. I live alone, I have no children to support, I don’t have a contract at university except for some meagre teaching hours, I have an office given to me in an institute because the director believes in my research, I live partially with state aid and teaching Italian in private schools that pay me little and according to the hours worked. I don’t have anything, I won’t lose anything: I mean nothing that I can be tied to. I don’t have any books with me because, after the 17th time I had to move, I realised it was no longer feasible to own books. But what I haven’t lost yet is myself. It’s my 10 years of study, it’s all the pages I’ve read and all the pages I’ve published, it’s the texts I still have to finish, it’s what I want to do. What I haven’t yet lost is this life. You have your life too, and right now, it’s starting to look as much on the edge as mine. Go beyond the university. Start to teach in bars, in restaurants, in the park. Democratise knowledge. What are you waiting for to get together with the precarious workers, the overworked researchers, the working poor in your department, what are you waiting for? Like the foreign workers and the Italian workers who united on May 21st, we should all join and strike en masse, together to ask for our rights. How could it be done? Take Sun Tzu and The Art of War. Start knowing who you are and knowing your enemy. Because being invincible is something inside yourself; being vulnerable is something inside your enemy. Make some new allies at your place of work and elsewhere. Who are your students? Tell them that you are forced to teach bullshit, that your salary is ridiculous, that your department is at risk. Launch a campaign to read Marx or other texts to help people understand the conditions in which they are existing. Tell your department that you will teach the fucking program, and introduce some lectures on Marx. Slow down the rhythm. Reduce the program in all your classes. Start giving importance to unhurried, deliberate reading in your class. Slow down the rhythm of meetings. Use administrative paraphernalia against the system. Dress entirely in red or violet for the whole semester. During the pandemic you have continued to work from home to guarantee your students right to education, but who guarantees your rights? Who protects you? Go public. Go to the television stations, go on the internet, tell everyone that the university wants to reduce your rights, but also the rights of the students, and ultimately of everyone, because the universities are there for the freedom of the people, both present and future. Tell parents that you cannot do a good job with their children, because your unsettled working and living conditions cause you anger and pain. Fight for your rights every day until the war is won. Why do you not have a contract like other workers? Stop arguing and theorizing, we already know everything, we have read everything, we have written everything, we have the intellectual wherewithal to deal with this situation. We have to stand together. We have to put a stop to this system, assholes. I believe in an unlimited general strike, starting for all, immediately. The time has come to act.

  • George, l'amico malato

    Questa mattina, senza che ci fosse una ragione precisa, ho iniziato a pensare a un caro amico che purtroppo da un po' di tempo ha qualche problema, non sta bene e non lo riconosciamo quasi più. Ci diciamo con gli altri amici che George - lo chiameremo così - è malato, è un po' matto, non sta bene. Fa cose strane. E ci capiamo, annuiamo, siamo tristi per un momento e poi andiamo avanti. In particolare, nei primi tempi del suo malessere, quando tutti noi altri ci siamo accorti che le cose non andassero per il verso giusto, gli capitava di credere di parlare al telefono, di discutere con qualcuno, ma in realtà non stava parlando con nessuno e non aveva nemmeno niente in mano, nessun telefono. Non è passato molto tempo e poi su questo amico è calato il silenzio. Adesso viene automaticamente ignorato nei nostri discorsi e nessuno, infine, vuole andare a trovarlo, né lo invitiamo quando ci vediamo. Non è che non lo vogliamo nel vero senso della parola: è più una sensazione di esclusione silenziosa, senza scontri e senza ragione apparente, dalla nostra cerchia di amici. Lui è lì, ma non è veramente lì. Lui è sempre lui, ma non è più lo stesso e non lo riconosciamo più. Poi, succede. Cominciamo a non pensare più a George e quando lo facciamo, allora è in modo diverso, e se lo incontriamo per caso, lo trattiamo in modo diverso. Usiamo precauzioni con i discorsi che facciamo nelle conversazioni e le parole che utilizziamo con George. Sono discorsi e parole svuotate di verità e sentimenti. Questo è l'ultimo passo verso l'isolamento e la distanza che mettiamo con lui da noi. Finché non siamo nemmeno più capaci di mentire. E allora la presenza della sua malattia sul fondo della scena, mette in crisi il nostro gruppo di amici e la nostra visione della vita e del mondo. Fa cose, dice cose, che non dovrebbero essere dette e non dovrebbero essere fatte. Non sappiamo chi decide cosa bisognerebbe fare o dire, ma sappiamo che quello che fa George non ha alcun diritto di esistere in queste condizioni. E così il nostro gruppo di amici. Mi sembra, inoltre, che George abbia col tempo aumentato le sue stranezze, comincia a cristallizzare la sua immagine in queste stranezze. Se prima erano dei momenti inattesi e subitanei, che poi passavano, adesso è come se per essere riconosciuto, per essere guardato, volesse esprimere ancora più forte il suo comportamento che giudichiamo non essere normale, non adatto a noi e agli altri. E come se ci dicesse: guardate la mia malattia, è qui, e mi sta colpendo più forte, per darmi lo slancio per saltare più in alto tra le folla silenziosa e farmi notare, farmi vedere, che nel mezzo di questo grigiume, esisto, esisto ancora. Guardatemi adesso, per favore. Ho detto, adesso, non prima, non com'ero, ma come sono. E perché vuole che lo guardiamo - ci chiediamo - perché insiste, non è possibile, è insopportabile, perché insiste se la nostra prima reazione è di voltare la testa da un'altra parte e trovarci tutti d'accordo in dei silenzi che sono luoghi comuni? Il silenzio a proposito di George continua. Non cambia nulla. Anzi, più si sforza, più diventiamo silenziosi e ci rinserriamo nei nostri cappotti per proteggerci da questo freddo. Ma nella nostra testa, almeno in quella di chi non riesce ad alzare muri solidi di indifferenza e protezione, nei ricordi della primavera, sta succedendo qualcos'altro. Abbiamo questa preoccupazione costante sulla possibilità che se ha sviluppato questa malattia, e se ha avuto questo legame molto forte con noi, probabilmente anche noi abbiamo la possibilità di ammalarci, che la malattia sia qualcosa che sta ancora lì tra noi, che sia entrata anche dentro di noi. Nonostante qualcuno del gruppo cerca di ridurre la questione con un "George ha sempre avuto problemi, è sempre stato strano, viene da una famiglia strana, è genetico, ha fatto delle scelte che lo hanno portato a quello che è adesso, è sfortunato, George è George, sapete com'è, no?", sentiamo che se qualcuno così vicino a noi può stare così male, può iniziare a dire e fare cose del genere, anche noi possiamo essere colpiti. La sensazione di un possibile contagio, di una possibilità che il mondo come l'abbiamo vissuto finora non sia quello che ci aspettavamo dovesse essere, si instaura e blocchiamo ogni accesso al nostro cuore. Ci rifiutiamo categoricamente. Ricorriamo alla razionalità, le nostre braccia immobili grondano razionalità. Scomponiamo i fatti. Analizziamo tutti i dati e tutte le affermazioni in nostro possesso. Dobbiamo sapere quello che sappiamo. Non c'è spazio per i dubbi. Un minimo dubbio potrebbe essere fatale. Ne parliamo con il nostro psicologo che ci rassicura, ché nonostante siamo amici di George, non siamo George, noi siamo diversi. George è George. E nient'altro. Tiriamo un sospiro di sollievo e tutto pare andare di nuovo bene. Finché vivendo in una piccola città, incontriamo di nuovo George, si ostina malgrado lui e malgrado il fatto che noi, gli altri amici lo ignoriamo a farsi vedere in giro e a passare dai posti dove potrebbe incontrarci. Nemmeno la gentilezza di andare a nascondersi da qualche parte dove nessuno di noi potrebbe vederlo, nemmeno un minimo di dignità di farsi vedere in questo stato. Utilizziamo le strategie consigliate dal nostro psicologo per far fronte a queste continue figurazioni di George che fa finta di parlare al suo telefono immaginario e che fa quello che uno come lui. Maledetto George. Ma il dubbio non ci lascia in pace e, infine, non possiamo fare a meno di pensare che se ha sviluppato questa malattia, mentre viveva stabilmente nel nostro stesso sistema di relazioni e di vita, allora ci diciamo che è possibile che in questo nostro sistema di vita e nella nostra rete di rapporti possano verificarsi queste malattie. È possibile che questa rete di relazioni, la nostra vita e il nostro mondo non siano quelli che pensavamo che fossero. Ma cerchiamo di concentrarci sui fatti: la maggior parte di noi altri amici sta bene, e finora le nostre relazioni ci hanno fatto bene, ci hanno permesso di condurre la nostra vita felicemente, almeno così pensiamo, e mantenere la nostra amicizia. L'amico malato, George, mina il nostro mondo e i nostri sentimenti di sicurezza tra persone che si riconoscono e sono rassicurate da questo riconoscimento e accettazione: sei con noi, sei come noi, faremo di tutto per mantenere intatto questo gruppo, la nostra amicizia, la nostra vita. Ti vediamo, ti riconosciamo. Ci vedi, ci riconosci. Scacciamo la solitudine e stiamo bene insieme. Serriamo i ranghi, ci tiriamo più forte l'uno verso l'altro, per tenerci in piedi a vicenda, prima di lasciare andare del tutto e il gruppo si frammenta. Una volta che il silenzio su una cosa si è instaurato, allora divora tutto il resto, mi ha detto una volta qualcuno. Il nostro gruppo diventa una costellazione di gruppi. Altri silenzi e buone maniere e come sta la famiglia? Tra un gruppo e l'altro, comincio a pensare: e se fossi io? Come mi sentirei se la mia vita e la mia malattia fossero ridotte a questo isolamento improvviso, un rapido cenno della testa fatto da lontano, mentre si continua sulla propria strada? Se ne fossi cosciente, preferirei il silenzio, come quello con cui soffochiamo George, o vorrei parlare di me e della mia malattia tutto il tempo? Non sarebbe strano tutto questo parlare? Perché i miei amici dovrebbero o vorrebbero sempre parlare della mia malattia? Cosa spingerebbe i miei amici a parlarne in continuazione e a diffondere la notizia tra altri amici e persone che nemmeno conosco? Cosa ci guadagnerebbero a fare questo? Perché la mia malattia dovrebbe diventare un argomento di discussione pubblica? Una di loro magari mi consiglierebbe di andare a vedere la sua psicologa, che è una brava persona, in gamba, e che ha fatto miracoli con suo marito Francis, che ora è tornato alla normalità, è tornato come prima. Prendo il biglietto da visita della psichiatra di Francis e non ci vado. Credo che qualcuno di cui si dica che possa tornare come prima, stia mentendo e che la sua psicologa vada bene per rassicurare la mia amica sulla salute di Francis, ma non per curare quest'ultimo - sempre che Francis voglia farsi curare, sempre che qualcuno possa curarlo. Comincio, allora, per davvero a comportarmi come George, l'amico malato. Faccio la stesso percorso, vedo le visite dei miei amici ridursi di molto, i discorsi girano sempre intorno al problema, i silenzi sono luoghi comuni che mi fanno perdere la voglia di vedere questi amici. Così comincio a fare nuove amicizie con persone sconosciute prima di allora e che avrei definito strane. Vado persino a cercarle, perché non voglio essere giudicato, perché sento questa sensazione di pericolo nell’animo dei miei amici e mi tengo ben lontano. Come George, certo, a volte mi capita di incontrarli per strada o di ritrovarci negli stessi posti. Ma ormai tutti siamo diventati dei professionisti a non dire niente, a fingere, ad andare avanti ogni per la sua strada. Al contrario, quando i miei nuovi amici, strani e sconosciuti, mi dicono che sono io ad avere ragione e che sì, quello che tengo nella mano vuota è davvero il mio telefono anche se nessuno può vederlo, io ci credo. Ora sei con noi, sei come noi, sei tu che hai ragione: non sei più solo, non sei più solo. Mi metto a sviluppare e affinare le stranezze del mio comportamento, mi lascio andare: "Si è lasciato andare". Divento George. Tra me e i miei amici di un tempo una sensazione di estraneità domina la scena. Non ci riconosciamo più. Non abbiamo nulla da condividere. Siamo estranei. Come se fossimo sempre venuti da mondi diversi, ma solo ora ce ne rendiamo conto, la verità salta fuori. Nessuno protegge nessuno, nessuno guarda nessuno. Ci siamo rispettivamente classificati: io sono quello malato, i miei amici sono quelli buoni, quelli che hanno imposto il silenzio, quelli che sanno cosa fare, che dovrei ascoltare, anche se nel mio animo sento che tutto sta cadendo a pezzi e che questo mondo non corrisponde più alla mia vita, questo mondo che non crede che io pensi di avere un telefono in mano, anche se non c'è niente, che non crede alle mie lunghe discussioni con il mio telefono immaginario. Questo mondo che non capisce che una volta che ho cominciato ad accettare una cosa così, accettare di credere in qualcosa, tutto il resto seguirà. E non sarò più lo stesso. Il mio riconoscermi diventa il non riconoscermi più con i miei amici. Costruisco i miei discorsi sulla stranezza che sento verso di loro e sul sostegno che mi danno i miei nuovi amici, tutti strani e sconosciuti, come me secondo i vecchi amici, ma tutti come me, se siamo tutti estranei. La direzione è segnata. È difficile tornare indietro. Il tempo passa, le nostre vite vanno avanti in un modo o nell'altro. Dopo la prima fiammata le cose si calmano, le nuove relazioni prendono la loro solidità e diventano stabili e continue. Si crea un nuovo paradigma e un nuovo gruppo - anche l'esclusione fa dei gruppi, anche una singola persona fa un gruppo. George è stato il primo a fare gruppo. Adesso siamo tutti noi altri. Dopo anni, se non siamo morti, ci incrociamo per strada con qualcuno tra loro, gli amici di prima, ci facciamo un cenno con la testa, finalmente ci capiamo, perché conosciamo la storia accaduta, ma restiamo a distanza. Con altri non c'è nemmeno un saluto. Ci siamo persi e siamo ancora cristallizzati nella stessa postura. Non ricordiamo nemmeno più chi è quella persona che ci saluta dall'altro capo della strada. Non sappiamo nemmeno se la conosciamo. E nemmeno ci interessa ormai. Troppo tempo è passato. Mi chiedo, allora, dopo questa proiezione in un futuro possibile, come ritrovare il legame con George che non sta bene. Come fare a bloccare i discorsi silenziosi. Se è vero che George posso essere io, allora devo iniziare a pensare alla sua malattia come un'opportunità per capirmi. Comincio a interiorizzarlo coscientemente e cerco di capire. Ci vuole tutto un esercizio spirituale che può richiedere molto tempo per mantenere la mia identità e il mio spirito e allo stesso tempo fare spazio a questo amico malato. Comincio a dubitare delle parole degli altri amici su di lui, rifiuto sia il silenzio che lo ignora ed elimina, sia il silenzio che esclude la sua malattia dai nostri discorsi. Comincio a rifiutare chi ne parla con gli altri. Poi comincio ad andare a cercarlo. Parlo di tutto tranne che del suo telefono, che crede di avere in mano e con cui si perde in lunghissime conversazioni. Io aspetto sempre che finisca le chiamate immaginarie per continuare a parlare con lui. Se, quando sto per andare via, mi dice chi mi chiama con il suo telefono, allora gli dico che per me va bene, ma potrebbe usare anche l'altro telefono, quello che funziona meglio e che in ogni caso non è il telefono il problema. Non è il suo telefono immaginario che ci ha tenuti lontani a me e a lui, e anche a tutti gli altri amici di quel gruppo che ormai è tanti gruppi. Il problema siamo noi e dobbiamo fare qualcosa per trovare un nuovo modo di parlarci, senza demandare agli altri, senza aspettare che qualcuno arrivi a risolvere le cose, che ci dica che adesso è il momento buono. Il problema siamo noi che non abbiamo il coraggio di prendere la parola, di chiamare quell'altro che mette in crisi le nostre certezze, che crea fessure nella nostra vita, normalità, fatta da non voler sapere e non voler dire e non voler chiamare George. Con uno o l’altro dei nostri telefoni. E la parte più difficile in tutto questo è non aver paura.

  • George, our unwell friend (A novel published on Antonym Magazine)

    Published on the international journal Antonym Mag (Qui la versione in italiano: https://www.alessandrochidichimo.com/post/george-differenza-esclusione)

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  • chi | alessandro chidichimo

    Scrivere è la mia occupazione quotidiana, tanto per ricerca che per la scrittura in sé stessa - dipende dai progetti su cui lavoro. Quando non scrivo allora disegno senza sosta tra una cosa e l'altra. Nel 2024 ho pubblicato Della morte non puoi parlare, o della gioia per le éditions Dasein e n el 2021 Tu, Toi sempre con Dasein. Dei miei racconti sono usciti su Antonym , Malgrado le mosche , Bomarscé ... e in passato sul cartaceo. Nella ricerca sono specializzato nelle scienze del linguaggio, nella filologia dei manoscritti della scuola ginevrina di linguistica: Ferdinand de Saussure (la mia tesi di dottorato Il manoscritto saussuriano De l'essence double du langage ha vinto il Prix Bally 2012, come miglior tesi dell'anno), Charles Bally, Albert Ch. Sechehaye, Serge Karcevski. Ho scritto anche di Michel Bréal e Emile Benveniste (ecco le pubblicazioni e le conferenze ). Ho lavorato nei giornali e nella comunicazione per una decina d'anni e diverse centinaia di articoli pubblicati. Mettendo insieme tutto questo nel 2015 mi sono finanziato la ricerca con un crowdfunding , uno dei primi casi al mondo. Di questi tempi per vivere insegno scrittura per il web all'Università di Ginevra e sono collaboratore scientifico su un progetto sulla disinformazione. Su questo sito raccolgo le cose che faccio che hanno a che fare con la scrittura, disegnare, amici. Per farla breve, guarda questo curriculum . Alessandro 2 lug 3 min Satnam, che ha perso un braccio 8 0 commenti 0 Post non contrassegnato con Mi piace Alessandro 7 mar 7 min La révolution attendra encore un jour (2020) 18 0 commenti 0 Post non contrassegnato con Mi piace Alessandro 7 mar 3 min Couper Saussure ou de l'élimination des cours en sciences humaines 1 0 commenti 0 Post non contrassegnato con Mi piace

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