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Immagine del redattoreAlessandro

Recensione a #Tundra, Elena Giorgiana Mirabelli Tunué, 2020

Elena Giorgiana Mirabelli sa scrivere e ha avuto il coraggio che ci vuole per scrivere il suo primo romanzo che si apre alla lettura come un orizzonte ampio dopo che attraversi una galleria per superare una montagna che si metteva tra te e la strada che porta al mare. Bisogna arrivare in fondo, fare tutto il percorso, per godersi lo spettacolo. Tundra è bello e soprattutto ha ritmo, tiene il tempo della lettura e chiede di farsi rileggere, perché consente diverse letture stratificate e molteplici punti di vista. Al confine tra racconto, realtà, filosofia, logica, percezione, spiritualità, attraversato da una traccia di odori e sensazioni che lo percorre come la sola strada principale della città, c’è il romanzo Tundra, come un caleidoscopio da far girare e montare e rimontare secondo il punto di vista. Come il sistema delle scatole dove le persone conservano le proprie cose nel romanzo, Tundra, può essere aperto e chiuso in qualsiasi punto e poi risalire indietro o in avanti per ritrovare i riferimenti, le allusioni, le storie e i personaggi.


I personaggi appunto che in Tundra costruiscono una storia di donne da madre (Marta) in figlia (Lea) e poi da donna a donna (da Lea a Diana, la protagonista principale che attraversa tutta la storia grazie ai ricordi e la rammemorazione di Lea), con gli uomini a fare solo da contesto e a volte usati come cartina tornasole per proiettarci sopra i propri sentimenti e vedere cosa ne esce fuori; ridotti a strumento di passaggio per i cambiamenti spirituali delle protagoniste o del tutto assenti e sfocati, come il padre di Lea. Queste figure femminili me ne hanno ricordate altre, come quella di "Pattern recognition" di William Gibson ed è proprio a Gibson che ho pensato nella lettura del romanzo, non tanto per la prospettiva tecnologica, ma per il mélange di interiorità, attesa e mondo.


La lingua di Tundra si alterna tra linguaggio scientifico, esoterico e delle sfumature erotiche. I riferimenti filosofici che mi è capitato di riconoscere sono tanti. A parte quelli espliciti con Arnold Gehelen (e in una sua citazione Herder) ne ho intravisti almeno altri. A partire da Charles Sanders Peirce per i grafi esistenziali (e anche direi come per Eco ne "Il nome della rosa", per l’interpretazione dei segni, ed Eco, un altro filosofo del linguaggio come Elena, e il suo primo romanzo zeppo di riferimenti filosofici sono un riferimento per la lingua di questo volume), passando da Nietzsche e la seconda considerazione inattuale sulla storia, e da una presenza diffusa di Derrida e il concetto di traccia – e direi di archivio. Gli abitanti di Tundra infatti sono archivisti del proprio archivio personale fatto di sensazioni, posizionamenti nello spazio esteriore e interiore. Tutto dev’essere catalogato, classificato, rientrare nella giusta scheda: comportamenti, sentimenti, azioni, appartamenti, tempo. Tempo che nella orizzontalità dell’archivio è annullato, proprio come nel progetto della città Tundra dove lo spazio è pensato per determinare con precisione la vita e le interazioni degli abitanti. Ma se in ogni classificazione c’è una logica interna, nel contesto distopico del romanzo vediamo allora apparire la presenza della logica che già un altro autore distopico aveva usato, Philip K. Dick (si ritrovano riferimenti a Duns Scoto per esempio e alla logica medievale).


Altri luoghi della filosofia e della logica sono i discorsi sulla percezione dei colori, i gradi di libertà, il punto di vista, il rapporto tra induzione e deduzione. E tutta Tundra da un lato corrisponde a quelli che sono gli esperimenti filosofici (Se consideriamo X, quali sono le possibili conseguenze e che domande ci fa nascere la situazione creata) e dall’altro risponde eccellentemente alla creazione di storie (Se consideriamo X, che cosa è necessario in conseguenza di X e che cosa succede se X si ritrova nel suo mondo). E allora se consideriamo Tundra dove mettiamo un mondo in cui la struttura dello spazio di vita della gente è determinata, dove tutto tende a essere controllato e tutti quanti conducono analisi su se stessi per determinare la situazione in corso momento dopo momento, allora che cosa succede?


Molte domande, ma quello che mi ha sorpreso che è in questo modo fatto di pochi colori, e in questo periodo dove uno dei sintomi del Covid 19 è la perdita temporanea dell’olfatto, Tundra è attraversato da una scia di odori (p. 16, 32, 37, 60, 75, 81, 83, 93, 97, 105): violetta e arancia e menta odorosa e glicine, tutti odori freschi, meridionali, dove non si sa se sia la memoria dell’autrice che fa sfoggio della sua propria memoria, anche se questa presenza identitaria si potrebbe coprire da un velo di distanza per dire che in un romanzo dove il ricordare e la necessità di dimenticare e non lasciare traccia, l’organo con la memoria più lunga l’olfatto segna l’impossibilità di controllare tutto. Se in questo testo si parla di spazio e di archivi. Se un archivio è fatto di assenze, prima che di presenze. In questo testo l’oblio e il ricordo si alternano, proprio come le strutture degli archivi dove le assenze sono necessarie perché ci siano le presenze. Gli odori allora si presentano sono traccia di memoria, la variabile inattesa che riordina le carte degli archivi e rende reali i sentimenti dei protagonisti.


Ma i riferimenti filosofici sono mischiati con riferimenti esoterici, come per esempio quello all’enneagramma che sarebbe una delle dottrine a cui la madre di Lea si ispira per creare i suoi testi. Lo stesso linguaggio di Marta si lascia difficilmente intrappolare in una identificazione unica e permette diverse interpretazioni e chiede di essere abbracciato senza dubbi, senza lasciarsi conquistare dalla struttura. Allo stesso modo il libro che presenta una struttura forte, chiede di credergli, di accettarlo e di farsi alla fine liberare in questo mondo. E le immagini diventano così vivide e la creazione di mondo è così solida che sarebbe bello se ci fosse un seguito, se sapessimo cosa succederà dopo, se sapessimo dove andrà Diana e chi prenderà il suo posto nella casa di Lea. Insomma, c’è materiale per tutta una serie televisiva o ancora meglio per un grande volume a fumetti, ma bande dessinée alla francese spiega meglio quello che voglio dire.


Due sono le cose che mi hanno lasciato interdetto e che mi hanno posto delle domande. La prima riguarda il linguaggio e ha aggiunto uno strato di riflessione ulteriore. Perché pisciare e non fare pipì? Perché fica che si ripete più volte? Perché scopare? Perché succhiarglielo? Perché la necessità di questo lessico? Da dove viene questo lessico? C’è qualcosa che si insinua come impercettibile, come una furia sommessa, una spoliazione del desiderio al puro atto sessuale e per farlo apparire nella sua meccanica, allora è fica, scopare, succhiare – dare i nomi alle cose, brutalmente, senza che la catalogazione dei sentimenti possa intervenire nell’atto di soddisfazione dei propri bisogni. Ma se questi termini aprono domande, c’è una cosa che non mi è piaciuta e riguarda l’edizione. Se la copertina è magnifica e tutto il resto è molto bello, i segni ricorrenti sui margini esterni di ogni pagina, non credo siano necessari e a volte ne disturbano la lettura, soprattutto in un testo dove il riconoscimento dei segni prende già tanto spazio. Ma come si dice, è solo un’opinione personale.



Infine, amici, leggete questo libro, tenetelo un po’ vicino a voi dopo che lo avete finito, non ve ne allontanate in fretta. E poi ripensateci, e durante la vostra giornata muovetevi come se vi muoveste in Tundra, come se non voleste dimenticare tutto quello che è stato e tutto quello che sarà. E poi vedrete come la voglia di scrivere i vostri ricordi e tenerveli stretti, in questo invito alla lettura e alla scrittura che è Tundra, non vi lascerà andare.

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